One Manning show

21 Ottobre 2006 di Roberto Gotta

Scrivere una rubrica principalmente di football vuol dire, in Italia, condannarsi alla famosa nicchia cui accennava il Direttore nella presentazione de La Settimana Sportiva? Non necessariamente. Ci sarebbero tantissime considerazioni da fare sull’impostazione dei media italiani (e non solo: avete mai visto i quotidiani sportivi spagnoli?), spesso vecchia, elefantiaca e stantia, e sulla scelta di argomenti e notizie, ma non è questo il luogo per farlo. Però siamo convinti che si possa parlare decentemente anche di sport poco seguiti – e anche questo non è del tutto esatto, lo dimostra il grande successo delle chat sulla NFL che la Gazzetta dello Sport organizza un paio di volte l’anno – senza issarsi sulla colonna degli stiliti o in una grotta e crogiolarsi nelle proprie conoscenze senza nemmeno chiedersi se a qualcuno interessino. Qui, d’ora in poi, ci si occuperà di football su tutti i versanti, non escluso quello italiano, se ce ne sarà motivo reale e soprattutto se si potrà farlo con i toni che caratterizzano la Settimana Sportiva, ovvero pochi urli e molta sostanza. Arriveremo oltre il Super Bowl del 4 febbraio – stavolta si gioca a Miami, sede preferita da molti addetti ai lavori per motivi fin troppo evidenti – e cercheremo al tempo stesso di spiegare, divulgare – per quel che ci compete, visto che non siamo propagandisti del football – e incuriosire. Ed una curiosità è certamente comprendere cosa attenda uno dei giocatori più forti della NFL, la National Football League, ovvero Peyton Manning, il quarterback degli Indianapolis Colts, votato come Mvp per due stagioni consecutive, e così popolare che negli USA lo si può vedere attualmente in ben sei spot pubblicitari diversi. Il weekend scorso ha visto la prima sconfitta dei Colts, probabilmente la squadra più efficace delle ultime due annate, se si ricorda che nel 2005 (nella NFL le stagioni vengono identificate con l’anno solare in cui si disputa la regular season, e i Super Bowl hanno numeri romani anche per ovviare alla possibile confusione generata dal fatto che si disputano nel gennaio o febbraio dell’anno successivo) arrivarono a vincere le prime 13 partite dando la netta impressione di poter eguagliare il record degli imbattuti Miami Dolphins del 1972: il 18 dicembre però cedettero in casa contro San Diego (17-26) e nei playoff dovettero arrendersi ai futuri campioni Pittsburgh Steelers in una partita memorabile, in cui Pittsburgh, avanti 21-18 a meno di due minuti dal termine, perdette palla ad una yard dal touchdown e diede ai Colts la possibilità di pareggiare. Ma il calcio da tre punti da 46 yard del solitamente affidabile Mike Vanderjagt non centrò i pali e Indy dovette quindi fermarsi pur avendo ottenuto le condizioni che pretendeva, ovvero il miglior bilancio della American Football Conference e dunque la possibilità di giocare in casa tutte le partite di playoff. In casa, ovvero all’RCA Dome, e non si tratta di un particolare trascurabile: non per il pubblico o per la comodità di non doversi spostare ed alterare le proprie abitudini, ma perché nel football, a parità di talento tra due squadre, quella che gioca nelle condizioni atmosferiche preferite ha normalmente un piccolo vantaggio. Teorico, virtuale, che va tradotto in realtà dai giocatori e dal coach. Dal momento infatti che la parte cruciale di una stagione si disputa sostanzialmente da metà novembre ai primi di febbraio, e comunque il Super Bowl è storia a parte per motivi che vedremo, le condizioni del tempo assumono una notevole importanza. Le squadre che giocano in casa al coperto, e tra queste ci sono i Colts, hanno tutto l’interesse a starsene sempre con un tetto sopra la testa, e per farlo, quando si va ai playoff, è necessario ottenere il miglior bilancio della regular season e dunque attendere a domicilio tutte le altre. Se poi va tutto bene, il Super Bowl diventa appunto un momento che si stacca, perché solitamente si gioca in località soleggiate (Miami, Tampa, San Diego) o al coperto, e dunque raramente il fattore ambientale ha un’influenza particolare. Giocare in dicembre a Green Bay, con temperature sottozero, o a Chicago, dove prima che il profilo del Soldier Field venisse innalzato il vento dall’adiacente Lago Michigan influiva in maniera cospicua sulle traiettorie dei lanci, dei punt e dei calci da tre punti (field goal), è completamente diverso che farlo ad Indy o Detroit o Atlanta, in un ‘dome’ (in inglese vuol dire cupola, tettoia), anche se è curioso notare come in luoghi del genere, con ampi spazi aperti, si trovino invece spesso in difficoltà i giocatori di basket, che parlano di correnti d’aria che modificano lievemente la traiettoria della palla sui tiri da lontano. Ma in quel caso il confronto è con le palestre di college, che anche nei casi in cui arrivino a capienze sopra i 15.000 hanno un ambiente raccolto e intimo che non le distingue molto da quelle in cui si svolgono gli allenamenti, specialmente nelle grandi università. Tornando a Manning, pareva che nei playoff 2005 giocare in casa, senza influenze ambientali, non fosse che un’arma in più per un giocatore che aveva già passato numerosi esami – ad esempio in una grande vittoria a New England il 7 novembre – ma che doveva ancora dimostrare di poter condurre la squadra al Super Bowl. E’ andata male, e in quel 18-21 contro Pittsburgh la sua prova non era stata da completo leader, ma la tremenda botta di quel giorno, e la sensazione sotterranea di un’occasione unica perduta – playoff in casa, zero infortuni, squadra motivata – sono state messe da parte con una rapidità che contribuisce davvero a rendere il 30enne Manning un giocatore particolare, eccezionale. Si direbbe quasi perfetto, se non fosse che la perfezione può essere, nello sport, legata solo a partite singole o tratti singoli di partita, e non è sostenibile a largo raggio. L’elogio della Quasi Perfezione parte da lontano, da Archie Manning, ottimo quarterback al college (Mississippi) e buono nella NFL (Saints, Oilers e Vikings, 1972-1984): il suo merito è stato di avere messo al mondo Peyton – e fin qui niente di particolare – e di averlo con dolcezza allevato nella cultura del football, così che la trafila di Peyton dal liceo all’università non fu l’effetto di alcuna imposizione, ma di semplice passaggio naturale, anche perché fin dai primi anni il padre lasciò che fossero Peyton e l’altro figlio Eli (ora quarterback dei New York Giants) ad andare da lui in caso di bisogno, ma non mosse mai un passo verso di loro se non richiesto. Per il college scelse Tennessee, un po’ perché andare a Mississippi avrebbe voluto dire inevitabili paragoni con il padre un po’ perché se si viene dal sud e si gioca a football nella NCAA UT vuol dire il massimo, o quasi: stadio da oltre 104.000 posti quasi sempre esaurito, totale dedizione del dipartimento sportivo alle sorti della squadra ed attenzione dei tifosi al limite, e spesso oltre, del soffocante. In quattro anni, Peyton vinse 39 partite perdendone sei, e diventando il miglior passatore nella storia dei Volunteers, anche se non vinse mai il titolo NCAA e nelle grandi sfide con Florida finì 0-3 nei tre anni da sophomore, junior e senior (la prima partita, persa anch’essa, la giocò solo subentrando al QB titolare), ma è un dato di fatto che una delle vie intorno al Neyland Stadium ora porta il suo nome, e UT ha ritirato la sua maglia numero 16 nel 2005, un onore toccato solo a due altri ex Volunteer quando erano ancora in vita. Alto (1.93) ma non particolarmente atletico, è quel che si dice un quarterback da tasca, ovvero uno che arretra e lancia (stiamo semplificando) ma che al contrario di un Michael Vick o Donovan McNabb non è adattissimo, nel caso di forte pressione difensiva, a muoversi, correre e sfuggire alla difesa. Ha una tecnica di lancio perfetta e la sua statura gli permette di scrutare il campo di gioco senza ostacoli da parte dei giocatori di linea, ma quello che porta molti osservatori a sciogliersi in complimenti per lui è la sua costante, pressante, metodica ricerca della perfezione. E’ ormai celebre in tutta la NFL il suo modo di fare una volta che l’attacco dei Col

ts si è schierato: non sta fermo, ma avanza, si inclina da un lato e dall’altro e grida istruzioni ai compagni, e questo perché, da buon QB, non appena ha chiamato uno schema di gioco verifica immediatamente lo schieramento della difesa e se individua qualcosa che non gli piace passa alla fase successiva, ovvero chiama il cosiddetto ‘audible’. Ovvero comunica verbalmente ai compagni la modifica dello schema per renderlo più efficace rispetto alla disposizione dei difensori. Lo fanno tutti i QB, altrimenti nemmeno metterebbero piede ad un allenamento della NFL, ma Manning ha reso questa procedura una forma professionale estrema, perché non riflette altro che la sua inusuale metodicità nella preparazione delle partite. Al contrario di altri sportivi che al di fuori delle ore di lavoro non si immergono nello studio della propria disciplina, Manning è uno di quelli che se non avesse fatto il passaggio a giocatore sarebbe un tifoso di quelli che rispondono esattamente ad ogni quiz, visto che notoriamente conosce quale università abbiano frequentato tutti i compagni di squadra e gli avversari e in alcuni casi persino il nome del liceo. In più, la sua ascesa verso una perfezione comunque non raggiungibile consta anche di particolari come quello rivelato da un quotidiano in estate: ad alcuni allenamenti dei Colts durante il training camp, Manning ha incaricato un assistente allenatore di sistemarsi alle spalle di tutti i difensori e di riprendere con la telecamera il… suo viso. Voleva infatti verificare il movimento dei propri occhi (massì!): per un quarterback è importantissimo non fissare il proprio sguardo immediatamente sul ricevitore cui lancerà la palla, ma farlo solo nel momento esatto in cui effettuerà il passaggio, anche perché conoscendo le traiettorie di corsa di ognuno di loro va spesso a ritmo più che a sguardo. Ecco perché Manning aveva disposto quel particolare tipo di scrutinio: uno sguardo male indirizzato e invece del passaggio ricevuto può arrivare l’intercetto da parte della difesa, per cui meglio evitare qualsiasi concessione agli avversari. La Quasi Perfezione si nutre anche di particolari così, ma è Quasi proprio per i tanti fattori che possono influenzare il rendimento di un giocatore. Dopo l’eliminazione da parte degli Steelers lo scorso anno Peyton si era lamentato della scarsa protezione da parte della linea di attacco, suscitando qualche perplessità per questo lavaggio pubblico di panni che andrebbero puliti in privato, e domenica, nella caduta 21-14 contro i Cowboys (all’aperto, cielo azzurrissimo, il Texas Stadium ha comunque una tettoia molto ampia), la difesa dei texani ha di nuovo provocato con il suo schieramento 3-4 (tre uomini sulla linea e quattro linebacker, alle loro spalle) una notevole pressione sugli uomini della offensive line, e Manning è stato atterrato due volte, perdendo in uno dei due casi il pallone che è stato recuperato dai Cowboys. Il suo 20/39, ovvero venti passaggi catturati dai suoi ricevitori su 39 effettuati, non è certo tra le sue prestazioni migliori (finora ha infatti completato 230 passaggi su 359, il 64.1%) ma se non altro avere perso la prima partita dopo nove successi toglierà di mezzo qualsiasi tentazione di puntare ancora ad una stagione imbattuta e ricorda a tutti i Colts che non bastano un fenomenale QB ed un eccezionale ricevitore (Marvin Harrison, che ha contribuito in maniera sostanziosa alle prestazioni di Manning) a veleggiare fino al Super Bowl. A Miami si gioca all’aperto, ma arrivati lì il tempo non conterà più. Fin lì però bisogna arrivarci.

Roberto Gotta
chacmool@iol.it

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