Nuovi edifici che crollano

16 Marzo 2010 di Simone Basso

di Simone Basso

Bastò prendere in mano la copertina del disco, naturalmente in vinile, e si comprese subito lo scarto decisivo: i denti umani che circondavano il logo primitivo del gruppo, il nero seppia dello sfondo e quel titolo minaccioso, “Halber mensch”. Einsturzende Neubauten, i terroristi più chic e snob degli anni ottanta, nacquero spontaneamente come un’esigenza fortissima dei tempi.

Incarnarono alla perfezione, quasi inconsapevolmente, la cultura dell’apocalisse nell’era del disimpegno assoluto e dell’intrattenimento a tutti i costi; loro che, per dirla con i parenti inglesi Throbbing Gristle, intrattennero con il dolore. Fiorirono nell’isola di cemento berlinese, a quel tempo appoggiata e circondata dal Muro, idealizzando l’allontanamento sentimentale dagli stereotipi del rock: abolirono quei noiosi quattro accordi di Chuck Berry suonati all’infinito, magari pure male come i punk del Settantasette, altresì riferimento estetico dei nostri in piena deutsche welle. Applicarono una massima enunciata da Carmelo Bene: “Se si vuol davvero cambiare qualcosa, bisogna cominciare a cambiare noi stessi, andare contro se stessi fino in fondo. Il massimo impegno civile è l’autocontestazione.”
Ne scaturì una metafora geniale, il riutilizzo virtuoso di tutto quel materiale di produzione (e quindi di scarto) della civiltà industriale. I Nuovi Edifici Che Crollano suonarono la società dei consumi: piloni di acciaio, lamiere, plastiche di scarto. E poi martelli pneumatici, carrelli del supermercato, oggetti metallici di ogni risma, piallatrici. Lo fecero con il furore giovanile iconoclasta dei rivoluzionari, ma ricordandosi sempre delle circostanze ironiche: l’assalto sonico d’esordio, il violentissimo “Kollaps”, si concluse con una riproposizione disossata di “Je t’aime moi non plus” e sul retro della cover (in un bianconero informale) la band fu ritratta, con tanto di esposizione completa dell’armamentario rumorista, parodiando i Pink Floyd.
“Halber mensch” (1985) visse di un equilibrio fortunato; un combo sempre più conscio del potenziale evocativo di quel suono, che insinuò nell’archetipo classico (?) alcuni cambiamenti decisivi: una produzione più accurata, merito di Gareth Jones, e l’introduzione di inserimenti elettronici, campionamenti ante litteram e spunti ambientali. Il coro a cappella della title-track, un cabaret espressionista condotto dalla voce teatrale di Blixa Bargeld, rimarcò le differenze con il passato recente. Le liriche ossessive ed auliche, un utilizzo del tedesco approfondendone significato e significante, il pezzo in più del puzzle vincente. La metal dance di “Yu-Gung (futter mein ego)” e “Z.N.S.” descrisse il precollasso nervoso del Mezzo Uomo, schiacciato dalle ritmiche portentose, atrocemente meccaniche, di F.M. Einheit (un boxeur prestato alle percussioni più minacciose…) e del capointonafragori N.U. Unruh.
Gli orizzonti degli EN si espansero all’infinito con i colori contrastati di “Seele brennt”, che oppose un’attesa piena di tensione (con il tintinnare accennato di fruste, clangori e voci bisbiglianti) all’esplosione brutale, compatta, dell’ensamble all’accenno di una melodia pianistica bartokiana: Ligeti polverizzato, come la medicina dei tossici, ed immesso nelle vene della popular muzik. Spaventoso ed efficace, nella stessa maniera di “Der tod ist ein dandy”, la sinfonia cacofonica che si accompagnò al poetare urlante e dantesco di Blixa. Al termine del rumore bianco, protesi verso il cielo nero, “Letztes biest (am himmel)”: una chiusura magistrale, guidata da una stratificazione estatica di bassi di Mark Chung. Lasciate le macerie sul pianeta terra, una base ritmica pulsante, insolitamente minimale, permise alla canzone di andare oltre, ridefinendo il loro concetto di bellezza. “Ich bin das letzte bieste am himmel/ Ich bin das letzte bieste am himmel/ Halt mich fest, ich trocke aus/ Es zerfallt mein licht/ Halt mich fest im zenit…”.
Un disco magistrale che aprì prospettive inusuali per la gang teutonica, che fu protagonista anche di un film di Sogo Ishii: icone dell’Occidente estremo, performanti nella desolazione di una fabbrica abbandonata, con la coreografia eccentica dei ballerini Butoh. Un documento straordinario, un segno dei tempi futuri(sti), e la maniera più elegante di rinverdire i fasti dell’antico asse Berlino-Tokyo.
Sabato 18 Marzo 1989, al pomeriggio, Laurent Fignon (angelo sporco di fango e fatica) staccò Maassen sul Poggio; la sera, nel contesto suggestivo del Lingotto torinese, vedemmo gli Einsturzende Neubauten. Smessi i panni del Grand Guignol dinamitardo, per esempio la distruzione e l’incendio dell’ICA di Londra nel 1984, impersonarono con raro equilibrio la magia del loro rito metropolitano.
Catartico e annichilente. Perfetti nello snocciolare i trucchi infiniti del loro repertorio, custodi di un suono che sintetizzò l’unione definitiva dell’uomo e della sua carne con i metalli, i cementi e le plastiche.
“Tanze, tanze den untergang!”
(Balla, balla il declino!)
Simone Basso
(in esclusiva per Indicreto)

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