Nessuno tocchi Keino

28 Gennaio 2014 di Stefano Olivari

Da anni non sentivamo parlare di Kip Keino, al punto che credevamo fosse morto. Invece leggendo della Queen’s Baton Relay (in pratica il passaggio per tanti paesi della torcia olimpica, solo che in questo caso riguarda i Giochi del Commonwealth che inizieranno il prossimo 23 luglio a Glasgow) sul sito della BBC abbiamo appreso che il grande mezzofondista keniano è ancora fra noi. Di più: a 74 anni fa ancora uscite da 10 chilometri e gestisce mille attività, fra cui un centro sportivo e una specie di scuola-ostello da lui creata per sostenere bambini poveri che al suo paese non ha difficoltà a trovare. Di più ancora: è presidente del Comitato Olimpico keniano (ma del resto non è che a Nairobi conoscano Malagò). Ma perché Keino è storicamente più importante di altri campioni dell’atletica? Prima di tutto perché fece parte della prima ondata di grandi mezzofondisti africani, quella che ai Giochi di Mexico 1968 dominò per la prima volta in tutte le specialità, in una maniera che oggi non farebbe notizia ma che all’epoca fu sconvolgente. Complice l’altitudine, i grandi specialisti bianchi (primo fra tutti l’australiano Ron Clarke), ebbero tutti problemi e così dagli 800 ai 10.000 l’Africa mise la freccia per il sorpasso anche in pista oltre che su strada. Il secondo motivo per cui Keino è importante è che la sua esplosione avvenne nei 1.500, la specialità che meglio descrive (insieme alla 4 per 400) lo stato di salute di un movimento, anche se è chiaro che chi vince i 100 metri ha una popolarità diversa. Lì superò il favorito, l’americano e futuro deputato repubblicano Jim Ryun, con una gara sempre di testa: un’oro che si aggiunse all’argento nei 5.000 e che fu bissato a Monaco 1972, ma nei 3mila siepi (!), mentre nei suoi 1.500 sarebbe stato d’argento dietro ad uno dei finlandesi volanti di quegli anni, Pekka Vasala. Per trovare un altro africano vincitore olimpico nella gara più prestigiosa si sarebbe dovuti arrivare al 1988, con Peter Rono. Keino aveva una struttura ben diversa dai mezzofondisti keniani di oggi (basti dire che giocava anche a rugby), essendo magro ma non scheletrico, e in Messico fu indubbiamente aiutato dalla condizioni ambientali, ma questo non toglie che in una grande storia dell’atletica (la migliore mai scritta in Italia è quella del grande vecchio R.L. Quercetani) uno dei capitoli sui personaggi di svolta debba riguardare lui.

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