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Nessuno sapeva di Schwazer
Stefano Olivari 07/08/2012
Con il doping sembra impossibile avere un rapporto laico. Nel senso: Alex Schwazer si è dopato, ha sbagliato, sarà squalificato minimo due anni e quelli che non si sono dopati (o non sono stati trovati positivi ai controlli) continueranno a gareggiare in sua assenza. Invece sembra che l’onore dell’atletica italiana, del Coni, del Paese, sia stato tradito e distrutto per l’eternità dalla scelta di un atleta consapevole di quanto stesse facendo. Di suo, il campione olimpico di Pechino nella 50 chilometri, ci ha messo una reazione da ciclista professionista, con la stessa apparente serenità che abbiamo visto in tanti squalificati, da Basso a Contador, sorprendendoci ogni volta. Qualcosa del genere: ‘L’ho preso nel culo, ho rischiato sapendo quello che rischiavo e mi è andata male. Ripartirò non dopandomi o facendomi più furbo’. Con il corollario para-omertoso e po’ calcistico dell’aver fatto tutto da solo, sorprendendo (ah ah) anche medici, preparatori, dirigenti e allenatori che vivevano con lui a contatto quotidiano. Non è un caso che il suo ultimo allenatore, l’ex iridato Michele Didoni, sia caduto dalle nuvole e che il suo vecchio, Sandro Damilano, abbia subito precisato che con lui Schwazer era pulito. Quanto all’incredibile presidente della Fidal Arese, che due anni fa aveva detto che avrebbe gestito in prima persona gli atleti da medaglia olimpica (ormai nessuno, a questo punto), anche lui non sapeva e non immaginava. Era troppo concentrato nel lasciare a casa atleti con il minimo di partecipazione ai Giochi, forse. La cosa grave è che probabilmente è vero, Arese non sapeva e non immaginava. Detto questo, vale sempre il principio che un bambino debba essere educato dai genitori e non da Schwazer, da un calciatore o da un ciclista. Il temino sull’esempio da dare ai giovani no, per favore. Chi ha sbagliato deve pagare, senza pistolotti su pentimento e redenzione ma anche senza linciaggi.