Monetizzazione di Belinelli

24 Settembre 2015 di Stefano Olivari

Marco Belinelli è andato ai Kings soltanto per i soldi? Tre anni a 19 milioni di dollari lordi totali… Questa la domanda aleggiante nelle varie presentazioni della sua biografia ‘Poker face’, scritta da Alessandro Mamoli. La risposta è probabilmente un sì, anche se la squadra quest’anno allenata fin dall’inizio da George Karl è molto ma molto migliore rispetto a quella dell’anno scorso, che con 29-53 fu tredicesima su quindici a Ovest. Intanto il fatto che general manager sia diventato Vlade Divac è garanzia di giocare sul serio, senza una mentalità da NBA deteriore, anche se i playoff dovessero rimanere lontani. La nostra idea è che invece i playoff siano teoricamente possibili, se Cauley-Stein scelto alla numero sei sarà almeno la metà di quello visto a Kentucky: con Cousins e il neo-arrivato Koufos, fresco di Europeo, i lunghi sono tutti interessanti e giovani. Rudy Gay non si discute, Casspi forse sì ma è stato riconfermato, fra Collison e McLemore il talento esterno c’è. Senza contare le costose scommesse di culto fatte su Rondo e su un Caron Butler anche lui fresco di autobiografia. Quale ruolo potrà ritagliarsi Belinelli in questa squadra a metà del guado, ma comunque in ricostruzione? Il settore guardie è abbastanza affollato, mentre scriviamo queste righe, anche di parenti famosi (Seth Curry fratello di Steph e David Stockton figlio di John) ma alla fine il suo concorrente sarà soprattutto McLemore: di sette anni più giovane di Belinelli, tiratore meno affidabile di lui ma molto più fisico (è stato anche alla gara delle schiacciate dell’All Star Game), è in grande ascesa. In un mondo in cui lo status è dato anche dal contratto, quello di Belinelli è comunque il quinto della squadra e quindi lo spazio sulla carta è superiore a quello degli ultimi tempi agli Spurs. La sensazione è che avrà parecchio tempo per riposarsi prima del preolimpico. In ogni caso non c’è nulla di male nel giocare per i soldi, visto che la NBA è uno spettacolo con un pubblico pagante e nemmeno poco. I sei milioni all’anno per Beli fanno meno impressione dei mille euro al mese ad un cesso con la pancia in C Regionale, per citare situazioni conosciute.

Kings e Divac sarebbero il pretesto per una divagazione sulla fantastica era ‘Queens’ (cit. Shaq), forse il miglior basket offensivo della storia recente. Venduta come squadra di Chris Webber, al limite di Mike Bibby o Divac (senza dimenticare Stojakovic, Christie, eccetera), in realtà era un capolavoro di Rick Adelman e soprattutto di Pete Carril. La stracitata Princeton Offense nella stagione 2001-2002 trovò infatti la sua migliore incarnazione professionistica. Qualcuno magari l’avrà sentita nominare in varie telecronache, per i pochi che non la conoscessero diciamo che si tratta di un tipo di attacco che si basa come pochi altri sulla capacità nei passaggi, in particolare dei lunghi (Webber e Divac non male…), e su tagli continui: fra questi ovviamente il backdoor. Poco usata nella NBA, perché pochi giocatori hanno la scolarizzazione (in tutti i sensi) per metterla in pratica. Poco usata anche nell’Europa che conta, perché necessita di familiarità e di quello che una volta avremmo chiamato ciclo. Punti di forza: è un attacco teoricamente inarrestabile, perché costringe le difese a battezzare o i tagli o almeno un tiratore. E poi riduce molto il gap fisico con gli avversari, qualcosa di Princeton si è notato anche nella meravigliosa Islanda vista a Berlino. Punti di debolezza: la già citata necessità di abilità nel passaggio, comprensione del gioco e familiarità. Inoltre la necessità di un certo tempo per il suo sviluppo, nella pallacanestro con limite di tiro a 24 secondi spesso un problema. Senza contare che tutti e cinque i giocatori ‘senza ruolo’ devono avere una pericolosità almeno minima da fuori. In sintesi, un attacco emozionante ma che come attacco base per tutta la partita è proponibile soltanto a livello di high school o college Cinderella. A meno di non avere cinque giocatori cinque di alto livello che sappiano ‘leggere’ e passare, proprio come quei Kings. Che si schiantarono, permettete un momento da italiani tipo Vettel che canta Toto Cutugno, sui 27 tiri liberi nel quarto quarto tirati dai Lakers nella finale di conference: uno dei peggiori arbitraggi NBA di sempre.

Ancora qualche parola sullo straordinario Europeo da poco terminato, ormai quasi oscurato dalla stagione di club che inizia sabato con la Supercoppa. Eravamo pronti con il po-po-po e invece dovremo guadagnarci la qualificazione olimpica il prossimo luglio, probabilmente a Torino ma sicuramente in un girone (da vincere, come del resto gli altri due) che presenterà almeno una corazzata al completo. Perché il non detto del discreto Europeo dell’Italia è che gli azzurri erano allo stra-completo, potendo schierare i migliori, mentre per mille motivi quasi tutti gli altri hanno visto mancare all’appello mezza squadra teoricamente titolare. In particolare la Spagna campione, che si è presentata senza Calderon, Rubio, Navarro, Ibaka (per regolamento però alternativo a Mirotic, essendo entrambi naturalizzati), Marc Gasol, Abrines, e con due soli giocatori NBA: l’immenso Pau e il decisivo Claver. Insomma, quella di Berlino è stata una grande partita ed è senz’altro la più importante vittoria azzurra dalla semifinale olimpica 2004 con la Lituania ad oggi, ma al di là di come sia finito l’Europeo è avvenuta contro una Spagna in chiara difficoltà. Senza con questo togliere niente alla retorica dell’impresa, che serve giusto per battere Carpi-Fiorentina: partita televista dal doppio degli spettatori della finale Spagna-Lituania.

Non ne abbiamo la certezza, ma a Lille ci sembra di avere riconosciuto in tribuna Massimiliano Finazzer Flory: regista, attore, ex assessore alla cultura di Milano. Ci siamo persi i passaggi intermedi fra quell’esperienza nella giunta di Letizia Moratti e il basket NBA, ma fatto sta che adesso Finazzer Flory è il curatore della mostra “Immagini a Canestro: Ball Don’t Lie”, organizzata dalla NBA e dalla Gazzetta dello Sport: dal 27 settembre al 10 ottobre (orario 12-21, ingresso gratuito) presso il Samsung District di Milano in via della Liberazione 9. In pratica video sugli ultimi 25 anni di storia NBA, con effetti speciali per sembrare all’interno di un’arena americana. Trent’anni fa avremmo ammazzato per poter visitare una mostra del genere, nel 2015 ci limiteremo ad andarci pur considerandola una situazione per under 18 cappellinati e con la maglietta di LeBron. Il pubblico però lo si crea anche così, senza snobismi. Fra le sezioni tematiche notiamo con piacere che non ne esiste una relativa alle schiacciate ma invece c’è quella sugli assist.

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