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Stefano Olivari 18/03/2014

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Il collasso di Mo Farah al termine della mezza maratona di New York ha generato le solite congetture, anche se chi si allena da mesi nella Rift Valley (l’inglese c’è appena tornato, per preparare l’esordio sulla maratona a Londra) di sicuro può avere dei problemi se viene paracadutato a una temperatura di 30 gradi inferiore e tirando comunque al massimo (è arrivato secondo, all’inseguimento di Geoffrey Mutai: 60’50” per il due volte vincitore della maratona da New York, 61’18” per il campione olimpico di 5 e 10mila). Il trentenne Farah ha assicurato che sarà comunque presente il 13 aprile a Londra e non si è dilungato sui 3 minuti in cui è rimasto senza conoscenza subito dopo avere tagliato la linea del traguardo. Per lui una situazione non nuova, con nel passato diversi episodi piccoli e uno del tutto assimilabile a quello newyorchese, agli Europei di cross del 2009 a Dublino (anche lì secondo). E quindi? L’ideologia del tecnico di Farah, l’ex maratoneta Alberto Salazar, cioè quella di allenarsi e correre sempre sui propri limiti, forse ha portato il campione vicino al punto di rottura. Il compagno di allenamento Galen Rupp, l’argento olimpico dei 10mila visto anche ai Mondiali di Sopot, ha ancora molto margine (anche psicologico) per sopportare il cosiddetto ‘insane workout’ di Salazar, mentre per Farah quella della maratona sembra più una fuga in avanti che una reale prospettiva. Di sicuro il gruppo Nike Oregon Project, che fa base proprio a Portland e di cui Farah e Rupp sono gli uomini immagine, non si distingue per la trasparenza, come del resto il mezzofondo africano di elìte. Le tabelle di allenamento non sono segrete (alla fine si tratta di una rivisitazione dell’interval training), mentre il modo in cui muscoli e tendini le sopportano rimane misterioso.

http://youtu.be/lpka7wiKpLs

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