Miracolo ad Atlanta, aspettando Thohir
15 Gennaio 2015
di Stefano Olivari
Gli Atlanta Hawks sono la squadra più in forma della NBA e una volta tanto nessun esperto può alzare il ditino in stile “Io l’avevo detto”. Perché tre mesi fa le premesse per la squadra di Thabo Sefolosha erano davvero tristi. Come del resto è logico per una realtà in vendita, reduce da una ricostruzione fallita, senza grandi stelle e operante in una città che nemmeno nei momenti migliori le ha dato grandissimo calore. Il presente dice che nella depressa, va detto, Eastern Conference gli Hawks sono ampiamente la prima squadra e che si stanno giocando con Portland il secondo record di tutta la NBA, dietro alla Golden State di Steph Curry.
Tutto parte nell’estate del 2012, quando da San Antonio arriva come presidente Danny Ferry. Che trova una rosa di buoni giocatori, abituati da 4 anni ad andare ai playoff ma sempre con qualcosa di mancante per il grande salto. Ferry si comporta secondo il manuale dell’executive NBA e così parte il mitico “Rebuilding” (ricostruzione, appunto), l’operazione che distrugge il presente di tante squadre senza alcuna certezza per il futuro: i tifosi dei Philadelphia 76ers, asfaltati proprio martedì dagli Hawks, potrebbero testimoniarlo.
L’idea di Ferry è quella di liberarsi dei contratti più pesanti, guadagnando scelte al draft e soprattutto spazio salariale per attirare i fenomeni diventati free agent. Viene così mandato ai Nets (altra squadra in vendita, dopo anni di follie) il miglior attaccante della squadra, Joe Johnson, in cambio di cinque discreti giocatori e una prima scelta 2013, completando il lavoro con Marvin Williams ai Jazz in cambio di Devin Harris. Gli obiettivi dichiarati sono nientemeno che Chris Paul, all’epoca già ai Los Angeles Clippers, e un Dwight Howard appena passato da Orlando ai Lakers. Ma se le squadre disastrate sono tante, le stelle vere sono invece poche, quindi anche questo rebuilding fallisce: Paul rimane a Los Angeles, mentre Howard pur rompendo con il mondo Lakers (ma più che altro con Kobe Bryant) pensa che Houston gli offra maggiori prospettive nella corsa a un titolo che gli manca.
Non potendo esonerare se stesso Ferry esonera l’allenatore Larry Drew, nonostante si sia qualificato ai playoff perdendo con onore dagli Indiana Pacers. Arriva in panchina una sua vecchia conoscenza agli Spurs, un Mike Budenholzer stanco di aspettare la pensione di Popovich, inoltre viene salutato un giocatore di grande talento e grande contratto come Josh Smith, non proprio l’esempio di disciplina gradito ai cultori degli Spurs. Da Utah viene Paul Millsap, con un contratto da 19 milioni di dollari totali fino al 2015, mentre viene riconfermato il supertiratore Kyle Korver, arrivato l’anno prima dai Bulls.
Al primo turno dei playoff ci sono ancora i Pacers e si va vicini all’impresa, perdendo solo alla settima partita. Fra i vari rinnovi (Brand, Scott, Mack) e la firma della prima scelta, chiamata numero 15, Adreian Payne, il colpo dell’estate 2014 è proprio Sefolosha, lo specialista difensivo che Budenholzer considera di vitale importanza nel basket estremo e sporco dei playoff, mentre la curiosità è il ritorno del logo in stile Pac Man che dal 1972 al 1995 ha fatto sognare tanti appassionati, pensando a Pete “Pistol” Maravich o a Dominique Wilkins. Si aspetta l’estate 2015 e ancora di più quella del 2016, ricche di free agent o di giocatori con possibilità di rescindere i propri contratti (anche LeBron James, volendo fare del bar). Ma c’è un problema: la franchigia viene messa sul mercato e non certo sulla base di considerazioni finanziarie.
Si deve andare ancora al 2012, quando il proprietario (insieme ad altri soci, dal 2004) degli Hawks Bruce Levenson si lamenta con Ferry della scarsa affluenza alle partite casalinghe e gli scrive una dettagliata e-mail in cui fa notare che alla Philips Arena il 70% del pubblico è nero, che la musica suonata è quasi sempre hip-hop o gospel, che i frequentatori dei bar sono quasi tutti neri, che anche fra le cheerleader trovare una bianca è difficile.
Levenson sottolinea che si vedono poche famiglie (sottinteso: famiglie bianche, in media quelle con maggior potere d’acquisto) e che la composizione razziale del pubblico non rispecchia quella della città. La mail, inviata a vari dirigenti, diventa di dominio pubblico generando un caso solo apparentemente simile a quello che ha costretto Donald Sterling a vendere i Clippers (costretto si fa per dire, visto che gli sono entrati in cassa due miliardi di dollari). La NBA non è infatta compatta contro Levenson, ma si divide fra chi gli dà del razzista e chi considera la sue frasi semplici considerazioni di marketing, di quelle che fanno tutti ma con la furbizia di non metterle per iscritto in un paese dove il politicamente corretto impera (sui media, non nella realtà). Fatto sta che gli Hawks sono in vendita e che ogni giorno spunta una nuova cordata: l’ultima, rivelata dalla ESPN, ha come uomo immagine l’ex fuoriclasse degli Atlanta Braves (baseball) Hank Aron, non a caso nero, e come soci vari imprenditori fra cui il socio di minoranza dei Grizzlies Steve Kaplan ed Erick Thohir, proprio il presidente dell’Inter.
Vedremo. Di sicuro in questa fase di transizione gli Hawks stanno facendo grandissime cose: settimo attacco della lega con 103 punti a partita, seconda difesa con 97 concessi, un quintetto molto equilibrato composto da Jeff Teague, Korver, DeMarre Carroll, Millsap e Al Horford, con Sefolosha sesto uomo. Con quello che c’è in circolazione a Ovest è difficile considerarli fra i favoriti per un titolo NBA vinto solo nel 1958 (quando erano a St. Louis, in piena era Bob Pettit), a dirla tutta a Est nonostante le classifiche attuali sembrano inferiori a Chicago Bulls e ai Cavs se si dovessero sbloccare, ma questo non toglie che nella NBA di oggi una squadra bene allenata si noti subito.
(pubblicato sul Giornale del Popolo di giovedì 15 gennaio 2015)
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