Magico senza televisione

2 Novembre 2007 di Stefano Olivari

Per fare bella figura nelle serate da bar sport storico è di solito sufficiente sparare un nome che gli altri avventori non hanno mai sentito. Meglio se è quello di un grande vero come Hector Scarone, di cui ci hanno chiesto informazioni persone insospettabili e di solito interessate più alla pubalgia di Stankovic o alla caviglia di Giuly. Non potevamo davvero sprecare l’assist…Cosa ha rappresentato per il calcio uno per il quale ‘El mejor jugador del mundo’ non era una definizione, ma proprio il soprannome, unito a quello storico di ‘Magico’?
Nato alla vigilia di Natale 1898 a Montevideo, figlio della gloria del Nacional Carlos, Hector Pedro fin dalla più tenera età sogna calcio, in particolare Nacional e Uruguay. Vista la professione (o semi-professione, visti i tempi) del padre, il piccolo Hector sta meglio di tanti suoi futuri compagni nella Celeste che incanterà il mondo per tutti gli anni Venti, e non vive il calcio di strada come l’unico calcio possibile. Insomma, nessuna infanzia strappalacrime. Ma l’essere in un certo senso un pollo di allevamento non gli impedisce di manifestare già a quattordici anni, nello Sportsman di Montevideo, tutte le sue doti: ambidestro, abile ma non esagerato nel dribbling, dotato nello scambio corto ma con una buona visione di gioco, tiro potentissimo soprattutto da fermo e pretesto per la nascita di mille leggende sui campi polverosissimi di Montevideo, al cui confronto quelli dei dilettanti sardi di oggi sembrano Wembley. Non solo: a dispetto della bassa statura è anche un gran colpitore di testa: in altre parole, un giocatore senza punti deboli, attaccante troppo bravo per fare solo l’attaccante, anche se abbandonerà il ruolo solo verso la trentina. Un Di Stefano meno veloce ma con più visione di gioco, un Cruijff meno leader ma più lineare, un Meazza meno furbo ma più continuo.
E non stiamo parlando dell’apice della sua carriera, ma già dei suoi inizi, visto che nel 1917, a diciannove anni, trascina l’Uruguay alla vittoria nel Sudamericano, trofeo che avrebbe alzato altre volte. Con lui il Nacional diventa il club più forte del Sudamerica, nell’era Scarone vincendo sette titoli nazionali prima che nel 1924 l’Olimpiade di Parigi faccia conoscere al mondo non solo gli Abrahams e i Liddell poi consacrati in ‘Momenti di Gloria’, ma anche un calcio incredibile, tatticamente non diverso da quello europeo (il sistema di Chapman deve ancora nascere) ma atleticamente e tecnicamente molto più avanti. Del blocco del Nacional Scarone è la stella, ma solo perché è Scarone, visto che all’Uruguay danno tanto anche Angel Romano, Andres Mazzali, Pedro Petrone, Hector Castro, Pedro Cea e soprattutto José Leandro Andrade (alla rosa mondiale del 1930 il Nacional ha fornito anche un Recoba, Emilio, solo omonimo del Chino granata). A Parigi illumina l’oro uruguagio, dopo un viaggio da leggenda (dormendo sui treni di mezza Europa, mangiando quando capita e autofinanziandosi), con cinque gol, ad Amsterdam 1928 con tre, superando in finale un’Argentina fortissima, con un Mumo Orsi che di lì a poco l’avrebbe abbandonata per la Juventus e l’Italia. In mezzo ai due ori olimpici una stagione al Barcellona, quando cambiare continente voleva dire davvero cambiare continente. Esperienza controversa, piena di classe e di nostalgia, chiusa con un ottimo incasso ed un leggendario anello tempestato di pietre preziose con la riproduzione del logo dei blaugrana. Curiosamente, dopo la guerra, Hector tornerà in Spagna per allenare, ma lo farà al Real Madrid, in una delle versioni meno brillanti della sua storia.
Dopo il vittorioso Mondiale del 1930, chiuso piegando l’Argentina di Monti, Stabile e Ferreyra, oltre che del giovanissimo Pancho Varallo (che ha lasciato testimonianze ed articoli con cui si potrebbero scrivere dieci libri: modestamente ne stiamo producendo uno) emigra di nuovo in Europa, all’Inter in versione Ambrosiana per le note vicende politiche. Nel 1931 i dirigenti nerazzurri hanno bisogno di un nome di livello mondiale per riempire l’Arena: Meazza ha 21 anni, è già un fenomeno, ma lo straniero, sia pure oriundo, ci vuole. E poi il Pepp è militare, negli Alpini. Scarone, a 33 anni, fa molto ma molto meglio del previsto, soprendendo chi già a quei tempi sostiene che ‘bisognerà vedere se saprà adattarsi ai ritmi del campionato italiano’. Nella storia dell’Inter entra per tante giocate, per l’ammirazione sconfinata che nei suoi confronti ha Meazza (‘Il più forte che abbia mai visto, sia in allenamento che in partita: chissà cosa doveva essere stato dieci anni prima”) e per un gol a Marassi, contro il Genoa, in azione solitaria partendo da metà campo. Poi il Palermo, prima di tornare nell’amato Nacional, dove vince l’ottavo campionato, a dieci anni dal settimo, e chiude la carriera nel 1939, a 41 anni. Un ritorno al calcio giocato (a 55 anni!!!) e una dimenticabile esperienza in panchina con il Nacional non lo fanno scendere, giustamente, dal piedestallo di mito. La morte, il 4 aprile del 1967, non è quindi una vera morte, di quelle che toccheranno a quasi tutti noi.
Nella storia rimarrà banalmente per l’albo d’oro e per quel Mondiale del 1930, con la finale che fu l’ultima sua partita con la Celeste, prima di lasciarla con 51 presenze e 31 gol. Non ha avuto a disposizione la televisione, questa è stata la sua unica colpa: per questo chi è supportato da replay da nove angolazioni diverse parte avvantaggiato nelle valutazioni degli storici del presente. Casualmente quasi tutti portati ad incoronare il campioncino di casa, che fuori dalla cinta daziaria è considerato unbo dei tanti. Peccato che Giulio Cesare sia esistito, così come Alessandro Magno, Leonardo Da Vinci, Rembrandt, Beethoven, Dostoevskij. Ognuno nel suo campo ha fatto qualcosa, anche senza telecamere: come Scarone. Che anzi, qualche ripresa dal basso (ci siamo cavati gli occhi su un dvd Fifa) l’ha avuta.

Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it

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