L’uomo e la Maquina

8 Luglio 2014 di Daniele D'Aquila

Adesso che Di Stefano se n’è andato parte la gara di retorica sul “più grande di sempre”, con partecipante chi in questi anni si scannava nel sondaggio “Pelè o Maradona” (posto che la maggior parte di quelli che han visto sia Pelè che Garrincha votano Manè…). E via, con le cronistoria della sua carriera, di cui ormai sappiamo tutto. Cresciuto nel vivaio del River Plate, all’ombra del suo grande idolo e modello Pedernera per “colpa” del quale inizialmente verrà impiegato da ala o da mezzala destra, in quella “Maquina” (dalla facilità di gioco e dagli automatismi consolidati tra fuoriclasse) di cui sappiamo ormai quasi tutto: 5 uomini in linea della linea di attacco, il centrattacco che diversamente dal centravanti europeo non sverna in avanti in attesa del pallone bensì “porta il gioco” da regista per poi allargare verso i compagni e raccogliere i servizi in area, etc.

Di Stefano ci mette poco ad imporsi in quel River Plate (si dice abbia un po’ meno tecnica di Pedernera ma più velocità, difatti viene soprannominato “la Saeta Rubia”), tanto che – forte di cotanto erede in casa – il River accetta di cedere Pedernera ai Millonarios di Bogotà. Di Stefano al primo anno da titolare  segna un terzo dei gol dello squadrone, che nel frattempo ha cambiato soprannome da “la Maquina” a “Los Caballeros de la Angustia”, prima di raggiungere Pedernera in Colombia per ovviare allo sciopero dei calciatori argentini per motivi salariali. Il “Dimayor” colombiano però è sì pieno di denaro di cui ricoprire gli assi argentini (e non solo) ma altrettanto illegale in quanto la Colombia è fuori dall’egida della FIFA.

Marcia indietro per tanti mentre per Di Stefano cantano le sirene europee, visto che viene notato dal Barcellona. Ma anche dal Real Madrid, che con metodi poco limpidi si inserisce nella trattativa nonostante un contratto già firmato dal giocatore e i catalani. Il Real Madrid è però la squadra del regime franchista, quindi nonostante l’evidenza la Federazione spagnola interviene nella querelle con una sentenza demenziale: Di Stefano dovrà giocare per sempre una stagione col Barça e una col Real, ad anni alterni. Gli irredenti catalani non possono accettare e quindi preferiscono lasciare l’intero Di Stefano al Real per non aver nulla a che spartire con “quelli là”, e da lì nasce la leggenda di Di Stefano in maglia merengue: le 5 coppe dei campioni e tutto il resto a coronare una carriera mitologica anche senza gioie in nazionale (un solo mondiale da naturalizzato spagnolo nel 1962 con la maglietta che resterà intonsa, tra acciacchi di un fisico che ormai segna il tempo e un rapporto burrascoso col “nemico” Herrera…).

Del resto sappiamo tutto, inutile ripetersi o citare numeri e statistiche anestetizzate da quelli delle odierne stagioni da 100 partite a testa. Forse più interessante sviscerare le sue caratteristiche tecnico-tattiche o quelle caratteriali. Le prime discendevano direttamente dall’esperienza come centrattacco del River, un ruolo in cui si era il regista e il portatore di palla della squadra, il che permetterà a Di Stefano una completezza, una visione di gioco ed un’azione a tutto campo che in Europa non si è abituati a vedere in un centravanti. Soprattutto in quell’epoca, tanto che “il centravanti alla Di Stefano” diverrà nell’immaginario collettivo una categorizzazione del ruolo, un po’ come “centravanti alla Hidegkuti” o il “libero alla Beckenbauer”.

Dal punto di vista caratteriale la personalità di Di Stefano era immensa, sia nella leadership dei compagni che nel confronto col mondo esterno. Non era modesto, affatto (quasi nessun grande lo è), e quando qualcuno gli chiedeva chi fosse secondo lui il più forte e completo giocatore della sua epoca non aveva paura a dire ”credo di essere stato io”. Quando però qualcuno gli chiedeva chi fosse stato il più grande di tutti i tempi tra lui e Pelè lui rispondeva “nessuno, perché tutti e due siamo un gradino sotto a Pedernera”. Di Stefano non ha mai staccato il poster di Pedernera dalla parete della cameretta della sua mente, nemmeno quando da Alfredito era ormai diventato Don Alfredo, un nome nel mondo ormai ben più noto ed importante di quello di Pedernera. Ma Di Stefano era poi così distante da Pedernera?!

Di Stefano viene aggregato alla prima squadra del River giovanissimo, a 16 anni, ed ad un certo punto arriva il momento di confrontarsi per la prima volta coi grandi nella consueta partitella di fine allenamento. Di Stefano sta ovviamente nella squadra riserve, a fare da sparring partner ai titolari de la Maquina: Carrizo, Vaghi, Rossi, e tutti gli altri fino alla linea d’attacco che generò il mito: Muñoz, Moreno, Pedernera, Labruna, Loustau. La palla è tra i piedi della squadra titolare quando a meta campo Di Stefano va in pressing sul portatore di palla (pare fosse Yacono), ruba palla e parte palla al piede: ne dribbla uno, ne dribbla un altro, ne dribbla un terzo. Arrivato in prossimità del limite dell’area prende la mira e scocca una sassata che sbatte contro l’incrocio e rimbalza al limite dell’area. Tra il sorpreso e il divertito i titolari riprendono palla e ricominciano a cucir l’azione. Ma Di Stefano non ci sta: ha capito l’errore e allora ci riprova. Rientra verso la metacampo, torna a pressare il portatore di palla, ruba di nuovo palla, si volta e riparte per riprovare pressocchè la medesima azione: ne dribbla uno, ne fa fuori un altro, salta anche il terzo e poi in vista dell’area spara un’altra cannonata. Stavolta però la traiettoria è di qualche centimetro più bassa, quel tanto che basta per insaccarsi sotto la traversa, così angolato che il portiere non può arrivarci.

Di fronte a quell’exploit lo sgomento di titolari e riserve è tale che qualcuno arriva addirittura a sorridere, Muñoz col suo solito spirito concederà una delle sue famose battute fulminanti: “Ragazzi, da domani il giornale leggetelo a partire dall’ultima pagina…”, perché a quell’epoca all’ultima pagina dei giornali si trovavano gli annunci di lavoro. A quel punto Pedernera rincorre con passo compassato Di Stefano che sta rientrando verso la propria metà campo in attesa della rimessa in gioco, gli arriva da dietro e gli appoggia il braccio attorno alle spalle. Poche cose potrebbero far gongolare Di Stefano come quell’abbraccio del suo idolo, da cui probabilmente si aspetta a quel punto la chiosa di un autorevole complimento. Pedernera a cui – esattamente come a molti protagonisti dell’epoca – non mancava un certo spirito, per quanto più ruvido rispetto all’ironia compita di un Muñoz o al sarcasmo sguaiato di un Labruna, lo ghiaccia: “Ragazzo, qui c’è gente che ha moglie e figli: vedi di darti una regolata…”.

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