L’ultimo tentativo di Mike D’Antoni

3 Gennaio 2016 di Stefano Olivari

Con la testa Mike D’Antoni non n’era mai andato dalla NBA, dopo la fine della sua grigia esperienza ai Lakers, ma adesso ci è tornato sul serio grazie ai, o per colpa dei, Philadephia 76ers. Non se n’era mai andato anche perché i Golden State Warriors campioni della lega rappresentano la summa ideologica della sua pallacanestro: tiro da tre, circolazione veloce della palla, quasi totale assenza di gioco in post basso, difesa dinamica, a volte rinuncia a un centro di ruolo, uso e abuso di quintetti piccoli ma non necessariamente leggeri in una versione estrema del cosiddetto ‘small ball’. Una pallacanestro che aveva affascinato tutti con i Phoenix Suns diretti dal miglior Nash ma che prima del trofeo alzato da Steph Curry veniva da molti addetti ai lavori giudicata inadatta all’intensità selvaggia dei playoff.

RICOSTRUZIONE – Nessun problema di playoff hanno i Sixers di questa stagione, la peggiore squadra della NBA non soltanto come record (due sole vittorie nelle prime 32 partite, con la seconda arrivata proprio alla prima presenza di D’Antoni in panchina, il giorno di Santo Stefano a Phoenix, 3-33 la situazione in questo momento) ma anche come filosofia. Se per un certo numero di stagioni la ricostruzione e l’arrivederci dato a inizio aprile vengono accettati dai tifosi, a Philadelphia si è andati oltre con scelte di mercato discutibili (su tutte l’operazione che ha portato Carter-Williams ai Bucks) e un atteggiamento inaccettabile anche per gli standard di una certa NBA di stagione regolare. Imputato numero uno agli occhi della proprietà (azionista di maggioranza è il finanziere Joshua Harris, presente nell’hockey su ghiaccio con i New Jersey Devils della NHL e nel calcio con il Crystal Palace in Premier League) è quindi il general manager Sam Hinkie, appannato ex enfant prodige dei dirigenti NBA.

PHOENIX DUE – È ovvio che la crisi permanente di una ‘grande’ storica non possa essere accettata ai piani alti della lega, per meri motivi di marketing, così pare che sia stato lo stesso commissioner Adam Silver a delegare a Jerry Colangelo la gestione sportiva dei Sixers, per rendere almeno decenti questi anni di transizione. Colangelo, proprietario dei Suns all’epoca di D’Antoni e anche a metà anni Zero fondatore della nuova filosofia della nazionale americana (cioè prendere sul serio la preparazione alle grandi manifestazioni, coinvolgendo soltanto atleti motivati e selezionati con largo anticipo), ha senza troppi problemi individuato nel sessantaquattrenne D’Antoni l’uomo giusto per affiancare Brett Brown, che non ha tante colpe ma ormai ha messo la faccia su una situazione di negatività forse senza uscita. E D’Antoni è tornato in pista proprio a Phoenix, il giorno di Santo Stefano, come associated head coach con il compito di far rendere al massimo il talento giovane (da Jahlil Okafor a Nerlens Noel), ma soprattutto di porre le basi di un ciclo vincente. Ragionando all’europea, potremmo dire che Colangelo vuole creare una sorta di ‘Phoenix Due’ e che a Brown è stata indicata la porta di uscita, anche se in realtà gli è appena stato prolungato il contratto.

SETTE SECONDI – Molto più interessante è osservare quanto il ‘dantonismo’ abbia influenzato il gioco NBA, con una filosofia più originale del famoso triangolo di Phil Jackson (in realtà del suo super-assistente Tex Winter, a sua volta ispiratosi al suo vecchio coach Sam Barry) o degli inimitabili equilibri organizzativi e umani dei San Antonio Spurs di Gregg Popovich. Una filosofia sintetizzata nel ‘Seven seconds or less’ (sette secondi o meno, intesi come tempo per andare al tiro) che non è un motto di D’Antoni ma il titolo di un fortunato libro di Jack McCallum sulla stagione 2005-2006 dei Suns (finita contro i Dallas Mavericks di Nowitzki nella finale di Western Conference), che sintetizza un’idea di pallacanestro che D’Antoni ha maturato, secondo quanto da lui stesso spiegato, da giocatore: carriera eccellente al college, difficile nella brutta NBA anni Settanta, straordinaria in Europa con tredici stagioni a Milano in cui ha vinto tutto, a partire da due Coppe dei Campioni. Il bello è che D’Antoni era la quintessenza del playmaker direttore d’orchestra, che giocava al limite dei trenta secondi (all’epoca…) e faceva lavorare le difese avversarie, oltretutto in una squadra per età e caratteristiche dei singoli, da Meneghin e McAdoo, poco portata agli alti ritmi. Già dalla sua prima esperienza da allenatore, sempre a Milano, si è capito cosa avesse in testa, poi a Treviso e soprattutto nella NBA ha messo a punto il tutto.

GOLF – Sfondare nella lega è sempre stato per D’Antoni un tarlo, al punto di fargli abbandonare una carriera sicura da santone della pallacanestro europea per ripartire come assistente ai Denver Nuggets. Nessun problema di umiltà per uno che è figlio e fratello di allenatori: ognuno è importante, o almeno va fatto sentire tale. Poi i Suns con Colangelo, Nash, Shawn Marion, ma anche Steve Kerr e Alvin Gentry, l’anno scorso allenatore e assistente degli Warriors (quest’anno Gentry guida i Pelicans). Esperienza finita una volta raggiunto il limite del possibile, con un record di 253-136 e il grande salto nel 2008 ai New York Knicks, il suo vero grande fallimento. Contratto di quattro anni, gli si chiedeva nei primi due soltanto di mostrare al pubblico del Madison Square Garden il suo basket spettacolo senza pensare alle vittorie, mentre i Knicks si liberavano di contratti pesanti aspettando il 2010 e l’arrivo di LeBron James da Cleveland. La storia è andata diversamente e non soltanto per la ‘Decision’ di James: basket individualistico di basso livello, spogliatoio spaccato e infine l’arrivo di un giocatore come Carmelo Anthony, la stella attorno a cui costruire una squadra NBA di tipo ortodosso, allenabile quindi da qualunque mestierante. Poche colpe nei Lakers di fine impero con Kobe declinante o assente, poi un anno di golf nella sua West Virginia dicendo no a tante proposte europee.

OKAFOR – Alla fine ha avuto ragione lui, anche se la sua ripartenza personale sta avvenendo da una squadra diventata barzelletta per i record negativi. L’obbiettivo concreto è non battere il più famoso di tutti, cioè quello del peggior bilancio stagionale: il 9-73 stabilito dagli stessi Sixers nel 1972-73. Impresa possibile, per una squadra che nonostante tutto non è priva di talento giovane, soprattutto nei lunghi. Il ruolo di D’Antoni è comunque per lui inedito: non allenatore puro, ma una sorta di uomo di fiducia di Colangelo, che a settantasei anni non ha voglia di abbandonare la sua Phoenix per Philadelphia e che farà il consulente stando a casa sua. Nel breve periodo sarà interessante il rapporto fra D’Antoni e Brown, che tatticamente non sarebbe lontanissimo dalle sue idee ma che da ex assistente di lunghissimo corso agli Spurs sceglie i giocatori secondo altri criteri. Il ragazzo attorno a cui costruire sembra Jahlil Okafor, l’anno scorso campione universitario con Duke e terza scelta al draft e che nella NBA sta facendo abbastanza bene, in attesa della guarigione di Joel Embiid, il centro camerunense che nel 2014 è stato anche lui terza chiamata assoluta. In una squadra del genere qualche buona operazione di mercato può cambiare la storia anche in poco tempo. E D’Antoni, anche se passa per un allenatore ‘da progetto’, di tempo non ne ha più tantissimo.

(pubblicato su ‘Il Giornale del Popolo’ di martedì 29 dicembre 2015)

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