L’otimismo di Adam Scheffer

9 Gennaio 2007 di Roberto Gotta

1. Qualche settimana fa accennavamo all’NFL Network, il canale televisivo della NFL, alla sua struttura, alla sua filosofia di nascita e di sviluppo ed ai problemi che pone a chi vi opera, vista la necessità di conciliare una buona informazione, corretta e precisa, con l’imbarazzo di lavorare comunque per un’azienda di proprietà della lega di cui ci si occupa. Bene, ecco allora la vicenda di Adam Scheffer, che imbarazzo non deve averne provato quando ancor prima che terminasse la regular season ha dato, primo tra tutti, la notizia che gli Oakland Raiders avevano deciso di licenziare il loro coach Art Shell, assunto appena un anno fa, dopo una torrida stagione da 2-14. Immediata e stizzita smentita dei Raiders, e ovvie considerazioni da parte di tutti gli altri: come membro della NFL, Oakland è di fatto comproprietaria dell’NFL Network e dunque si è trovata a smentire una notizia data in definitiva da un proprio dipendente. A Peter King, l’ottimo editorialista di Sports Illustrated che l’ha contattato, Scheffer ha risposto così: «I dirigenti del network adorano il lavoro che noi giornalisti facciamo. Quando il canale ha iniziato la programmazione so che molti hanno pensato “questo è l’organo ufficiale della NFL, come possiamo credergli?”. Ma non siamo la Pravda. Non siamo mai, mai stati condizionati nel raccontare le cose come stanno. Anzi, è il contrario: vogliono che siamo grintosi, aggressivi». Ma allora chi aveva ragione, Scheffer a rivelare la notizia in anteprima, o i Raiders a smentirla? Fate voi: il 4 gennaio Shell è stato licenziato. Da qualche parte, in tutto ciò, ci sono una morale e forse una lezione, ma non sappiamo dirvi esattamente quale.
2. Ricordate i bowl universitari, argomento della precedente puntata della rubrica? E’ finita la stagione, ora, anzi proprio nella notte tra lunedì e martedì, ed è andata come non ci si aspettava. Ohio State, dominatrice di una regular season coronata dal fenomenale 42-39 ai rivali di Michigan in quella che era parsa una semifinale a livello nazionale più che una sfida per il titolo della Big Ten, è stata sminuzzata 41-14 da Florida nel BCS Championship Game di Glendale, in Arizona, e addio titolo nazionale, finito ai rivali – ma ne parliamo più avanti – proprio per il meccanismo contorto cui avevamo accennato: ovvero, accertato con formule matematiche che fingono perlomeno di non essere influenzate dal sentimento quali siano le due migliori squadre da far affrontare in questa sorta di finale universitaria, sta poi a loro sbrigarsela, ed i Gators se la sono sbrigata fin troppo bene, superando anche l’immediato shock del 7-0 di Ohio State ottenuto alla prima azione della partita con il ritorno di kickoff per 93 yards di Ted Ginn Jr (foto), che si è poi fatto male alla caviglia sinistra nel mucchio dei… festeggiamenti e non è più tornato in campo a dare preoccupazioni a Florida con la sua velocità. I Gators hanno ripreso forza subito, chiudendo il primo quarto in vantaggio 14-7 e il primo tempo 34-14, senza mai lasciar respirare i Buckeyes: il Qb di OSU, Troy Smith, vincitore dell’Heisman Trophy come miglior giocatore universitario, ha completato solo 4 passaggi su 14 per un totale di 35 yards ed ha subito cinque sack, mentre Ohio State ha conquistato solo 82 yards complessive e otto primi down contro le 370 e 21 di Florida, ed anche il tempo di possesso palla è clamorosamente stato a favore della squadra di Urban Meyer: 40’48” contro 19’12”. Il tempo di possesso non è una statistica determinante, perché ovviamente guadagnare primi down a ripetizione non serve a nulla se alla fine del ‘drive’ (serie di possessi consecutivi) non segni punti, ma è significativa del distacco tattico tra le due squadre, nell’occasione, nato forse dal miglior lavoro di analisi – oltre che dalla presenza di un maggior numero di atleti puri – che lo staff di Florida ha fatto negli oltre trenta giorni di tempo per preparare la gara. Ora, detto che in teoria si affrontavano le due migliori, la vittoria di Florida ha portato a questa situazione: i Gators hanno chiuso 13-1 battendo OSU, ex numero uno del ranking e dunque la squadra teoricamente più forte, ed è stata eletta campione nazionale sia nella graduatoria di USA Today sia in quella della AP, Ohio State finisce 12-1, ma allora ci si chiede dove sia Boise State, che ha avuto un 13-0 ed ha battuto Oklahoma (11-3) in un fantastico Fiesta Bowl, e magari pure Louisville e Wisconsin, le altre due squadre che hanno perso solo una partita (Wisconsin, però, contro Michigan, 13-27). Ed è per questo che anche stavolta l’esito del BCS ha lasciato perplessi alcuni, portandoli ancora a chiedere una specie di playoff, che però non verrà mai approvata.
3. Tornando al Fiesta Bowl – tra l’altro sullo stesso campo dove si è giocato il BCS – è impossibile non menzionare le fasi finali della partita, chiusa 43-42 ai supplementari, che come noto nel college football non sono a tempo quanto a ‘tentativi’: quattro per ogni squadra a partire dalle 25 yards offensive, e alla fine di ogni ‘turno’, come i rigori nel calcio, chi è in vantaggio vince. Boise State, che aveva sprecato i 18 punti di vantaggio della metà del terzo quarto, ha pareggiato a 7” dal termine con un gioco particolare su una quasi impossibile situazione di 4° tentativo e 18 dalle 50, ovvero lancio del Qb Jared Zabransky per Drisan James sulle 35, James finge di correre avanti per chiudere il down (mancavano tre yards, ma non sarebbe poi rimasto tempo per un’altra azione) ma all’improvviso si gira e getta la palla per l’accorrente Jerard Rabb, che percorre le ultime 35 yards senza essere fermato. In più, quando al supplementare Oklahoma ha segnato al primo tentativo con una corsa (ovviamente di 25 yards) di Adrian Peterson andando avanti 42-35 con il calcio aggiuntivo, Boise State ha segnato sei punti con un passaggio del ricevitore Vinny Perretta a Derek Schouman, ma invece di pareggiare con l’extra point e riprendere tutto da capo con un’altra serie offensiva di Oklahoma e poi nuovamente propria, il coach Chris Petersen (foto) ha tirato fuori un colpo di genio, uno schema non inedito ma visto assai raramente. Quello detto Statua della Libertà: da una formazione con tre ricevitori a destra, il QB Zabransky ha ricevuto lo snap e con grande abilità ha nascosto la palla nella mano sinistra tenendola dietro la schiena, mentre con la destra, raccolta in un primo momento sul fianco, fingeva il lancio, effettuandolo in pratica a vuoto. Con la difesa di Oklahoma sbilanciata sul proprio lato sinistro a coprire il lancio mai avvenuto, la palla veniva presa da dietro la schiena di Zabransky dal running back Ian Johnson, che correndo dalla parte opposta, ovvero verso sinistra dalla prospettiva dell’attacco, entrava in end zone e con i due punti della trasformazione dava ai suoi la vittoria. E’ per giochi come questo, ma anche per la routine di schemi che in difesa ed in attacco mirano a sbilanciare, ingannare, disorientare gli avversati, che tatticamente il football è uno sport avvincente ed affascinante come pochi altri. Pensateci: ad ogni azione, che si sia sulle 3 difensive o sulle 40 offensive, per almeno i primi tre down l’attacco potrebbe teoricamente cercare di guadagnare 1 yard o 97, e la difesa non può saperlo, così come la difesa stessa, aspettandosi un lancio, potrebbe cercare di arrivare con molti uomini sul Qb rischiando tutto nel lasciare i defensive back in marcatura individuale sui ricevitori oppure prevedere una corsa e comportarsi di conseguenza. Fantastico.
4. Playoff NFL: inutile soffermarci sull’analisi singola delle partite, ancora a quattro giorni dalla prima gara, ma forse solo Chicago-Seattle presenta un panorama tecnico e tattico lievemente inferiore alle altre. Per il resto, come si può dire che Ravens-Colts, difesa dura e feroce contro l’attacco aereo di Peyton Manning, sia più appetitosa di Chargers-Patriots, dove l’irrefrenabile vigoria del running back LaDainian Tomlinson (foto) sfida la solidità di una squadra che non vale quella dei Super Bowl vinti ma n

on va mai messa da parte con facilità e sta ritrovando efficacia in attacco, o di Saints-Eagles, in un Superdome che sarà a livelli di baccano quasi pericolosi per la salute? Solo una cosa va ricordata: nelle ultime tre edizioni dei playoff, inclusa quella in corso, le squadre in casa hanno vinto solo 14 partite su 24, una percentuale del 58%, niente di che. Ovvero, non basta giocare in casa per vincere, nei playoff.

Roberto Gotta
chacmool@iol.it

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