L’ora di Chris Paul

28 Aprile 2015 di Simone Basso

Temiamo che le prossime Finals non esibiranno il livello tecnico, celestiale, del crudele Clippers-Spurs di primo turno. L’Ovest è una brutta bestia e l’incrocio tra Velieri e Speroni vale uno Showdown. I temi di una sfida che meriterebbe un’altra collocazione (Giugno..) sono innumerevoli. Chris Paul è all’apogeo della carriera e continua a inseguire il primo anello: la clessidra corre e mai come quest’anno è stato il generale sul campo. Mvp ombra della lega, manifesto della superstar che gioca Two Way; il Pifferaio Magico che in attacco comanda l’inerzia delle partite e, di là, marca le ali piccole limitandole. Uno dei sei piedi che, nella storia del gioco, hanno segnato un’epoca. CP3 e pochi altri: Cousy, Archibald, Thomas, Stockton. Il vero problema di questi Clips sono le rotazioni. San Antonio, inferiore nello starting five (c’è un quintetto più forte di quello dei losangelini?), con la panca produce parziali sanguinosi. Forse basterebbe un Gallinari, al posto di Barnes (che si ricollocherebbe nella posizione più consona: settimo uomo), per issare il bandierine. Così invece, corti, troppo corti, si scommette sull’irresistibile pick and roll tra Paul e Griffin; con la point-guard che, all’occorrenza, piazza blocchi degni di un pivot. Difatti è la serie di Blake Griffin, decisiva per chiarire il suo ruolo da ras. Il potenziale è clamoroso: dal post alto, in quanto a doti di lettura e passaggio, sembra Karl Malone. Con il frugolone DeAndre Jordan a spaventare gli avversari, nessuno difende il ferro al pari dei Clippers.

Eppure i texani, al tramonto di un ciclo leggendario, non molleranno l’osso. Lo scontro affascina anche per la presenza di allenatori vincenti e carismatici, che vincono pure quando perdono: ricordate gli Orlando Magic 2000 o gli Spurs 2006? Il sapere applicato (una psicoscienza) di Gregg Popovich e la leadership rileyiana di Doc Rivers, pastore di anime. Il deus ex machina degli Speroni si ritrova l’imbarazzo del mismatch in punta: Chris Paul, per Tony Parker, nelle condizioni fisiche attuali del francese, infortunato, è una tortura cinese. Gli Spurs atleticamente vanno sotto, costretti ai due lunghi per un alto-basso che stani Jordan e controlli il ritmo gara. Dipendono dalle percentuali delle triple, vivendo e morendo dei tiri dal lato debole creati con il loro – micidiale – Good To Great. La pressione è sui vari Green, Mills, Belinelli; altrimenti, dal rimbalzo offensivo, scatta la transizione di Lob City. Se Kawhi Leonard – un Sidney Moncrief nello spot da tre – è più o meno nella stessa situazione di Griffin, abbiamo perso le parole per descrivere Tim Duncan. Un giocatore irripetibile, il Kareem Abdul-Jabbar dei quattro, un trentanovenne che cambia sui piccoli. Quando era matricola (1997), e già un’iraddidio, dominavano i Bulls di Jordan e Pippen; i Grizzlies erano canadesi, i SuperSonics battagliavano coi Lakers di Shaq nella Pacific e i Clippers giocavano – di fronte a quattro gatti – alla Los Angeles Memorial Sports Arena. Il caraibico, in occasione del primo titolo (1999), ebbe come compagno il povero Jerome Kersey, uno della nidiata storica del draft 1984. Oggi, ottocentotrenta doppie doppie dall’esordio (e centosessantuno nella post season!), condivide gli oneri della franchigia con uno, il difensore dell’Anno Leonard, che a quei tempi doveva compiere ancora otto anni…

“Look at your children / See their faces in golden rays

Don’t kid yourself they belong to you / They’re the start of a coming race..”
(David Bowie, 1971)

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