Lo scudetto del sor Umberto

23 Febbraio 2018 di Indiscreto

Trent’anni fa moriva Umberto Lenzini, che nella sua vita aveva fatto tanto cose ma che per noi rimarrà sempre il presidente della Lazio del primo scudetto, quello della stagione 1973-74 con Tommaso Maestrelli allenatore e Giorgio Chinaglia leader di una squadra al tempo stesso benedetta e maledetta, in senso extracalcistico ben rappresentativa delle tensioni degli anni Settanta (che stanno tornando sotto mentite spoglie, fra parentesi). Anche se la divisione in clan, con annesse bravate e pistole, era più legata allo schema amici di Chinaglia-nemici di Chinaglia che a questioni politiche, visto che in quello spogliatoio la destra, anche nella sua declinazione di destra democristiana, era in nettissima prevalenza.

Per certi versi la storia personale di Lenzini assomigliava a quella di Chinaglia, anche se negli Stati Uniti ai commercianti Lenzini era andata molto meglio di quanto non fosse andata ai minatori Chinaglia in Galles. Discreto calciatore semiprofessionista, dopo il diploma da ragioniere Lenzini si buttò insieme ai fratelli nel settore dell’edilizia e in breve diventò uno dei più importanti costruttori romani proprio nel periodo del boom edilizio della capitale. A metà anni Sessanta diventò anche azionista di maggioranza della Lazio, nonostante non fosse un tifoso caldissimo. Come tutti ebbe bisogno di apprendistato, visto che con lui la squadra finì due volte in serie B, tornando poi nella massima serie nel 1972. In B però vennero poste le basi del trionfo, perché dall’Internapoli arrivarono Chinaglia e Wilson, poi tutti gli altri della formazione-filastrocca che conquistò lo scudetto dopo averlo sfiorato la stagione prima. Lenzini era un presidente di vecchio stampo, paterno e paternalistico, che viveva la sua squadra come una famiglia. ‘Papà Lenzini’ e ‘Sor Umberto’ erano definizioni giornalistiche un po’ tendenti alla macchietta, ma rendevano l’idea.

Particolarissimo il suo rapporto con Chinaglia, che nel 1971 rifiutò al Milan e che nel 1973 non volle cedere alla Juventus nonostante le pressioni personali di Agnelli: i fatti gli diedero ragione, anche per questo poi nel 1976 visse quasi come un tradimento la scelta dell’attaccante di andare nei Cosmos. Particolare anche la sua gestione societaria: non era ancora il tempo delle mille cariche inutili con il nome in italiese e Lenzini voleva il controllo anche su questioni minime, al punto di occuparsi personalmente della gestione dei biglietti omaggio. Per questo suo voler decidere su tutto ebbe memorabili litigi con l’ex arbitro Sbardella, diventato direttore generale della Lazio, mentre il suo braccio destro ideale era il segretario Nando Vona. Questa mania di accentrare non era in contraddizione, anzi, con una corte che lo seguiva nelle trasferte calcistiche in mezza Italia: amici, attori, tifosi che erano capaci di farlo sorridere, fra i quali il famoso Richetto Croce. Lenzini capitava in ritiro e all’allenamento spesso e con i giocatori cercava un rapporto da ex giocatore, per quanto modesto: a volte si metteva a palleggiare e sempre si inseriva nei rituali pre-partita, soprattutto le sfide a carte in cui venivano giocate somme assurde. Va ribadito che stiamo parlando di un abile uomo d’affari in un settore pieno di squali come l’edilizia, non di un ingenuo capitato lì per caso.

Lo scudetto fu ovviamente il punto più alto della sua storia da presidente: immediatamente arrivò l’esclusione dalla Coppa dei Campioni per gli incidenti durante Lazio-Ipswich (colpa non solo di alcuni tifosi, ma anche di alcuni giocatori), l’addio di Chinaglia, il divorzio da Maestrelli, le morti di Re Cecconi e Paparelli, un collasso di Lenzini stesso durante il calciomercato del 1979, con il decennio che si chiuse con la retrocessione in B per lo scandalo scommesse, pochi giorni dopo avere ingaggiato René Van de Kerkhof. La terza retrocessione dell’era Lenzini: colpa di Giordano, Manfredonia, Wilson e Cacciatori, ma pur sempre una retrocessione. Lenzini non resse, anche perché i debiti stavano aumentando a vista d’occhio (erano ormai sui sei miliardi di lire), e di lì a poco se ne andò. Lasciando il club in mano al fratello Aldo, con annessi contenziosi giudiziari in cui famiglia e affari si mescolavano: un periodo difficile, con Gian Casoni che traghettò il club verso la poco luminosa era di Chinaglia presidente. Umberto Lenzini era ormai un ricordo: già trent’anni fa quei presidenti dal volto umano, che non significa buoni, iniziavano a scarseggiare. La sua Lazio avrebbe potuto vincere di più? Sicuramente sì, ma non bisogna dimenticare che stiamo parlando della metà degli anni Settanta e in quel calcio autarchico chi aveva i giocatori italiani di valore (quasi tutti alla Juventus, come la formazione del Mondiale 1978 avrebbe dimostrato) se li teneva. Lenzini il suo segno l’aveva comunque già lasciato.

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