Anni Novanta
Litfiba, attualità di El Diablo
Andrea Ferrari 04/05/2020
Da El Diablo dei Litfiba sono passati già trent’anni. “Quando mi chiesero di entrare nei Litfiba non credevo che mi sarei trovato in una band simile ai Guns N’ Roses, li avevo conosciuti con uno stile molto diverso…”. Queste sono le parole di Franco Caforio, il batterista scelto da Piero Pelù e Ghigo Renzulli per accompagnarli nella “Fase 2” dei Litfiba lungo gli anni Novanta, il capitolo di maggiore successo di quella che può essere considerata la rock band italiana più grande di sempre.
Una nuova era per la band fiorentina cominciata proprio con El Diablo. Album importante per diversi motivi: c’è la cosiddetta svolta rock, con una virata verso sonorità più dure e mainstream dopo la dipartita polemica di Maroccolo e Aiazzi (che però suona nel disco in modalità “Rick Wright di The Wall”), fu il primo dopo la tragica morte di Ringo De Palma per overdose, ma soprattutto è il lavoro che ha dato ai Litfiba il grande successo commerciale (quasi mezzo milione di copie vendute), peccato mai perdonato da quella critica musicale in perenne modalità Vraghinaroda, cioè nemica del popolo, per dirla col grande Labranca.
Album dentro al suo tempo (“Mi sento tradito se ti spari le pere”), ma anche tremendamente attuale in questa Italia distopica da coronavirus. Dalla hybris regolatoria dei governanti “Sogno proibito di qualcuno è castigare” alle strazianti parole di Ragazzo, “Sono un ragazzo, ricordatevi che esisto, sono il re del Nulla mentre il Nulla ruba i migliori”, che ben descrivono la condizione dei giovani, già relegati a una vita grama da un sistema gerontocratico e ora ancor più umiliati con gli arresti domiciliari per tutelare la vecchietta con la pensione calcolata col Retributivo e magari altre 2 pensioni di reversibilità.
Attualissima anche la società ritratta in Gioconda tra ipocrisie del cattolicesimo e precarietà della vita coniugale (nella nostra personale statistica conosciamo più separati-divorziati che coppie stabili). El Diablo si chiude con Resisti, titolo più adatto all’orwelliana Italia di Conte che a quella che si apprestava a vedere la fine della Prima Repubblica.