Litaliano più vero

22 Maggio 2010 di Simone Basso

di Simone Basso

Annunciato da una copertina inquietante, tinta di viola e di nero, “Andare camminare lavorare e altre storie” è l’opera più rappresentativa del genio del male dei cantautori nostrani. Piero Ciampi da Livorno (quartiere Pontino), che in tempi sospetti fu anche Piero Litaliano, con quella raccolta memorabile di canzoni sbilenche, struggenti, malinconiche, sublimò il suo stile inimitabile e squinternato di cantastorie.

Arrivò a quel disco in tandem con il grande Gianni Marchetti, arrangiatore e compositore indispensabile nel riordinare il flusso di (in)coscienza dell’amico. Basterebbe accostarsi alla splendida “Livorno”, con quel break jazzato che squarcia il mood del brano, per realizzare l’importanza del Marchetti nel colorare le polaroid dell’anarcoide livornese. Che fu talmente vero e così poco verosimile, al contrario dei colleghi(?) in eskimo e di quelli festivalieri, da inimicarsi il mondo (immondo) dello spettacolo. Fece rissa con chiunque, anche con se stesso, approfondendo quella vena amara e disperata (da toscano dentro) che lo affianca ad alcuni protagonisti della letteratura italiana del dopoguerra: con Luciano Bianciardi ebbe similitudini ed assonanze sorprendenti, compreso l’epilogo triste sfinendosi di alcolici.
Con lo scrittore de “La vita agra” e “Aprire il fuoco” condivise lo stesso smarrimento estetico ed etico di fronte alla trasformazione industriale del Bel Paese. Quell’Italia di ex contadini imboniti ed imbottiti di Carosello che in pochi anni divennero altro; il Ciampi colse quel dolore sordo, pasoliniano, e lo fermò su vinile: ma raccontò sempre un destino collettivo parlando di individui e del loro microcosmo. “Andare camminare lavorare” è un’apertura fortissima; il Piero descrive la beffa di uno Stivale eterno, imperturbabile nel suo cinismo donabbondiano. “Andare camminare lavorare/ Il passato nel cassetto chiuso a chiave/ Il futuro al Totocalcio per sperare Non è il caso di scappare/ Andare camminare lavorare…”.
“L’amore è tutto qui” fa parecchio chansonnier, lui che Brassens lo conobbe veramente;
durante una di quelle fughe, la metafora ciclistica ricorrerà spesso nei suoi versi, che lo caratterizzeranno per tutta la vita. “40 soldati 40 sorelle” è geniale, una delle immagini più belle e poetiche nel descrivere una via percorribile e visionaria al pacifismo; la voce del nostro, intonata il giusto ma non troppo, ha il furore cupo del pagliaccio bianco, il pierrot severo amatissimo da Bergman e Fellini. “Ha tutte le carte in regola”, amarissima, è di una sincerità disarmante: Ciampi smonta il proprio personaggio e lo viviseziona (come un cadavere caldo) di fronte alla platea. “Ha tutte le carte in regola/ Per essere un artista/ Detesta lavorare intorno a un parassita Vive male la sua vita ma lo fa con grande amore/ Ha amato tanto due donne, erano belle, bionde, alte, snelle/ Ma per lui non esistono più..”. Fa la lista dei suoi vizi, la verve cabarettistica strepitosa de “Il giocatore”, e sprofonda nel suo Lago di Lochness: le parole de “Il vino”, di una lucidità luciferina, sono il diario di un suicidio programmato. “Com’è bello il vino rosso rosso rosso/ Bianco è il mattino, sono dentro a un fosso E in mezzo all’acqua sporca godo queste stelle/ Questa vita è corta, sta scritto sulla pelle..”.
C’è un umano urlante, disperato e soave, anche nel delirio di “Cristo tra i chitarristi”, un’allucinazione in musica (scarna e svuotata come una nave nel porto) e versi sospesi come pallottole vaganti. “Te lo faccio vedere chi sono io”, storia poco seria di un fremito d’amore, funziona come apripista e contraltare perfetto alle pennellate fosche di “In un palazzo di giustizia”, cronaca di un matrimonio ricomposto come una salma (nel suo fallimento) di fronte a un giudice. L’assurdità della vita si tinge di magico nel finale, “Il merlo” è un guizzo circense; con un’orchestrazione che fa molto Nino Rota, il Ciampi cita il pennuto di Alberto Moravia (!) vicino di casa nella parentesi romana.
Il resto delinea la personalità di un uomo che non si fece mai mancare nulla: le partite a scacchi con Carmelo Bene, l’etilismo cronico, gli insulti al Club Tenco e una fine da cani, tutt’altro che inattesa.
Malgrado coltivasse la sua cirrosi epatica con cura maniacale, nel 1980 fu spedito al creatore da quello che i nostri vecchi chiamano curiosamente un brutto male (alla gola): come se le altre malattie mortali fossero belle e divertenti… Il suo divenire in rima, storto e acido, ne ha impedito per fortuna una beatificazione modello De Andrè; quel suo pieno a perdere continua ad affascinarci morbosamente, sintomatico di uno spirito libero che ha sempre saputo rappresentare solo la propria anima spoglia e nient’altro. Uomo nero della canzone italiana, potreste forse (per sbaglio) incrociarlo in un happening anni settanta filmato da mamma Rai; oggi uno così (nell’era delle mammelle e delle pallonate) non sarebbe più riproponibile. Avremmo anche una mezza idea di cosa direbbe della cloaca contemporanea, la stessa frase che suggellò l’indimenticabile “Adius”, una canzone educatissima ma a modo suo…
Simone Basso 
(in esclusiva per Indiscreto)

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