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Destinazione Palalido

L’Italia dura di Cesare Rubini

Stefano Olivari 27/11/2013

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Cesare Rubini è stato molto più di uno sportivo di grande successo e la sua vita non è spiegabile solo attraverso i record. Presente nella Hall of Fame di due sport con pochi punti in comune come pallanuoto e pallacanestro, oro olimpico in piscina e argento europeo sul parquet come giocatore, pluriscudettato come allenatore in entrambi gli sport, onorato nella pallanuoto più come giocatore e nel basket come allenatore-dirigente, ma non riducibile ai risultati del campo. Rubini è stato uno dei volti guerrieri dell’Italia del dopoguerra e ha portato per primo una mentalità professionistica in ambienti dove si guadagnava sì (poco), ma sempre sottobanco e con la corazza etica del finto dilettantismo. Fortunato a trovare un presidente che gli consentì di esprimersi, come Adolfo Bogoncelli, ma anche bravissimo nel far cambiare alla gente la percezione della pallacanestro. La Trieste dove nacque (nel 1923) gli ha dedicato il Palazzo dello Sport, la Milano dove fu grande e dove è morto a 87 anni deve decidere (intanto perché il nuovo Palalido ancora non esiste e fino a settembre 2014 non esisterà, poi perché la vicenda della sponsorizzazione Armani ancora non è chiara): di sicuro non sono stati resi troppi onori post mortem ad un uomo che in vita è stato più temuto e ammirato che amato. Non era un Pozzecco (che sta diventando un grande tecnico, fra l’altro), insomma, né in campo né fuori. Ma meritava una biografia come ‘Indimenticabile’, che Oscar Eleni e Sergio Meda (per l’editore Sport & Passione) gli hanno dedicato non per erigere monumenti ma per raccontare l’Italia di due sport attraverso il suo personaggio più rappresentativo. Operazione riuscitissima, anche chi pensava di sapere tutto è rimasto stupito dalla quantità  di storie inedite e dal modo in cui sono state alternate a testimonianze non sempre elogiative. Fedeli al principio di non regalare recensioni agli amici, preferiamo che sia uno degli autori a parlare dell’opera.

Oscar Eleni, nel libro il Rubini versione pallacanestro prevale, come spazio, su quello della pallanuoto. E nella sua testa?

Rubini preferiva la pallanuoto, senza dubbio. Ha giocato in nazionale anche nella pallacanestro, ma è in piscina che ha goduto, come atleta, di considerazione internazionale. Al punto di essere inserito nella selezione del Resto del Mondo. Non è solo una questione sportiva, è che nella pallanuoto Rubini poteva esprimere al meglio la sua personalità e la sua cattiveria agonistica: del resto all’epoca si giocava in mare, con i tifosi avversari che dalle barche tiravano sassi e non per modo di dire. Impossibile anche solo sopravvivere, senza essere duri nella testa e nel fisico. Certo, la pallacanestro gli ha dato da vivere e anche molto di più, per questo nella sua vita adulta la scelta è stata netta. Anche se il suo sogno era quello di essere c.t. del Settebello ai Giochi di Roma…

Come giocatore-allenatore e come allenatore, con l’Olimpia Milano targata prima Borletti e poi Simmenthal, ha vinto 14 scudetti, una Coppa Campioni nel 1966 con Bill Bradley in campo e tanto altro. Eppure non aveva la fama di essere un grande tecnico…

Se ci riferiamo agli schemi da disegnare sulla lavagnetta è vero, ma era lui stesso il primo ad ammetterlo. Non dava valore agli schemi, nonostante molti dei suoi avversari, dal professor Nikolic in giù, fossero quasi degli scienziati. Lui lavorava sul fisico e soprattutto sulla mente dei giocatori, con allenamenti che spesso erano battaglie molto più dure di certe partite di campionato. Tatticamente, come ha detto qualche suo giocatore, sapeva di non sapere. Per questo si è sempre servito di collaboratori di enorme qualità, come Dido Guerrieri e Sandro Gamba.

Ecco, Gamba. Per atteggiamento mentale il vero uomo da Rubini, sia come giocatore che in panchina. Oltre che un allenatore molto più moderno e preparato, grazie anche ai viaggi in America. Come mai non diventò suo successore sulla panchina dell’Olimpia?

Ci è sempre sfuggito il motivo per cui nel 1973 il presidente dell’Olimpia, Bogoncelli, non gli diede la chance di essere il successore di Rubini. Un Rubini, ormai dirigente, che fra l’altro premeva per questa soluzione e che si mise a piangere apprendendo la notizia della firma dell’amico con l’Ignis Varese. Viste le ristrettezze dell’Olimpia dell’epoca, al termine dell’era Simmenthal, fu una fortuna per Gamba che andò a vincere scudetti e Coppe Campioni, ma la scelta di Bogoncelli rimane inspiegabile anche a 40 anni di distanza. Non per il valore di Pippo Faina, ottimo allenatore che fece il massimo con quel poco che aveva a disposizione preparando il terreno all’era Peterson, ma perché tutto il mondo della pallacanestro, a partire da Rubini, pensava che quel posto spettasse a Gamba. Posso solo pensare a un’antipatia personale e privata, per fatti o parole che non conosciamo.

Per motivi di età abbiamo osservato nel suo tempo solo il Rubini dirigente federale nella FIP presieduta da Vinci, quindi dalla fine degli anni Settanta in avanti. Il dirigente è stato inferiore al giocatore e all’allenatore?

Ha ottenuto grandi risultati anche in azzurro, con Gamba in panchina, mentre con Bianchini nonostante la stima reciproca le cose non hanno funzionato. La scelta della FIP fu all’epoca lungimirante: un super-professionista calato in un mondo fino a quel momento semi-dilettantistico. Uno come Rubini sapeva parlare il linguaggio dei Meneghin e dei Marzorati, facendosi rispettare, non era il classico federale in gita premio. Di certo Rubini sapeva bene che non sarebbe mai potuto diventare presidente federale perché, per essere chiari, altri erano più bravi di lui nel fare promesse e raccogliere voti.

Alcuni azzurri degli anni Ottanta e Novanta ci hanno raccontato che Rubini controllava la stampa e aveva i giornalisti sempre dalla sua parte, scatenandoli contro i giocatori sgraditi. E’ vero?

Forse i giornalisti preferivano ascoltare uno che prendeva lo sport sul serio piuttosto che le lamentele di uno che si presentava all’allenamento con le cuffie. Per Rubini lo sport non è mai stato un gioco e non doveva esserlo nemmeno per chi lavorava con lui. Non mi sembra poi che in azzurro abbia fatto male, dall’argento olimpico di Mosca 1980 a quello europeo di Roma 1991, passando per l’oro di Nantes e anche qualche rovescio.

Il suo giocatore più amato e quello meno amato?

Come giocatore più amato in tanti arrivano a pari merito, perché lui per forma mentale considerava tutti giocatori i ‘suoi’ e li difendeva contro il mondo esterno anche quando nello spogliatoio magari li appendeva al muro. In senso tecnico il giocatore con cui ebbe l’intuizione più grande fu Gianfranco Pieri, trasformato da pivot in playmaker nonostante per l’epoca avesse un’altezza da pivot, a livello di cuore quello che forse più lo rappresentava era un guerriero come Art Kenney. Un posto particolare nel suo cuore ce l’aveva Pino Brumatti, di sicuro. I problemi più grandi li ebbe invece con Renzo Bariviera, ancora oggi Bariviera pensa di essere stato trattato male da Rubini. 

E’ vero che non sapeva una parola d’inglese, pur avendo rapporti personali con personaggi dello sport di tutto il mondo? Dicono che detestasse gli Stati Uniti…

Più o meno era così, mi riferisco alla lingua. Ma aveva l’umiltà di farsi accompagnare da suoi interpreti di assoluta fiducia, quasi sempre suoi giocatori: il poliglotta Sergio Stefanini, Ricky Pagani, lo stesso Gamba. Quanto agli Stati Uniti, ne era affascinato e non solo per l’organizzazione sportiva. Gamba sostiene la teoria, un po’ per scherzo, che non ci andasse volentieri perché non capiva una parola. In realtà la sua antipatia nazionalistica era riservata alla allora Jugoslavia, cosa non inspiegabile per un triestino della sua epoca. Lo sport però non c’entrava, anzi Rubini era un grande ammiratore della furbizia mista a cattiveria delle squadre jugoslave. 

Rubini e il rapporto con i soldi, nel libro se ne parla tantissimo. Era così attaccato al denaro?

Si dichiarava socialista ma come tutti gli ex poveri aveva paura di tornare povero, bisogna contestualizzare le cose. Nell’Italia del dopoguerra un campione della pallanuoto, quale Rubini era, riusciva a malapena a strappare vitto e alloggio a una squadra di vertice. E nel basket le cose non erano molto migliori. Fu anzi proprio lui, insieme a Bogoncelli, a portare una mentalità professionistica: dalle divise alle calze, dalle scarpette rosse all’allenamento, il salto di qualità in Italia avvenne per merito loro anche se poi la pallacanestro ha avuto per fortuna altri dirigenti illuminati. Di certo c’è che davanti a una superofferta dell’Ignis Varese, che lo avrebbe arricchito veramente, Rubini disse no. Era triestino, si sentiva a suo agio in tutta Italia, ma la casa che si era scelto era Milano.

Quale è stata la lezione di Cesare Rubini?

Non era un santo, ma era un uomo di sport al massimo livello. La cosa che ancora oggi mi impressiona, ricordandolo, è la serietà con cui prendeva la sua professione. E poi la sua mentalità: guardava sempre in avanti, anche di anni. Serietà e lungimiranza, in un paese decente sarebbero qualità non solo nello sport. Mi piaceva anche il suo rifiuto della cultura del lamento: con gli arbitri faceva scenate in campo, per condizionarli, ma nel post-partita mai ha dato ai suoi giocatori l’alibi di un fischio sfavorevole. Anzi, elogiava la furbizia degli avversari nel portare le situazioni a proprio vantaggio. Qualcuno dice che è merito dell’Italia dura in cui si è formato e da cui è emerso, ma se così fosse tutti quelli della sua generazione sarebbero stati dei Rubini. No, lui era speciale. Indimenticabile, appunto.

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