L’Italia di Tardelli

15 Giugno 2016 di Stefano Olivari

Lunedì invece di scrivere le solite stronzate abbiamo preso un po’ d’aria andando a Lione per Italia-Belgio, non escludiamo altri blitz europei a dispetto dei tanti amici che ‘in televisione si vede meglio’. Tatticamente è già stato detto tutto sul Muro del Calcio, del resto non eravamo in tribuna stampa ma praticamente in prima fila a bordo campo e quindi con un’idea sbagliata della profondità. Ma anche una molto giusta della situazione e delle sensazioni.

Stadio nuovo, inaugurato sei mesi fa, stadio bellissimo, ma anche stadio impersonale e in culo ai lupi, rispetto alla città: è infatti è formalmente nel comune di Décines, a quindici chilometri dal centro di Lione. Possibile ma sconsigliabile arrivarci in macchina o con il trasporto pubblico ordinario, i locali ci dicono che la soluzione migliore per le partite casalinghe del Lione è quella di prendere le navette organizzate dal club, che però non sono quasi mai sufficienti. Insomma, nessun Fuksas di questo mondo ci convincerà mai che le periferie, nemmeno quelle per ricchi, siano meglio del centro.

Ma dicevamo di Italia-Belgio, in un clima che ci ha riconciliato con il calcio e confermato lo stereotipo del tifoso da nazionale mediamente migliore di quello da club, per la semplice ragione che è meno tifoso pur essendo magari la stessa persona. Non che sia di base più intelligente, è soltanto che il giorno dopo in ufficio difficilmente troverà un collega del Belgio o della Svezia pronto a rompergli (o a farsi rompere) i coglioni a colpi di pregiudizi e frasi fatte. La Nazionale è per noi però soprattutto memoria di un’Italia eterna, a cui siamo affezionati senza snobismo o secondi livelli di lettura, pur senza avere mai fatto il po-po-po.

Ci pensavamo osservando un signore (Signore? Sarà stato più giovane di noi di dieci anni) alto uno e cinquanta, sui centoquaranta chili, alla Vito Catozzo, incontrato sia alla stazione che allo Stade des Lumières, che indossava la maglia della Nazionale numero 14, con stampato TARDELLI sulla schiena. La maglia era molto oltre il tarocco, nessuno sponsor tecnico e nessuna somiglianza con una qualsiasi delle maglie indossate dall’Italia da Valcareggi ai giorni nostri: era semplicemente una maglia azzurra di quelle che si trovano al mercato a 5 euro. Nemmeno con citazione vintage, perché nel 1982 non c’erano i nomi sulla schiena. Però era a suo modo più vera di tutte le terze maglie ufficiali con colori Arlecchino che cambiano ogni anno e che il genitore 2.0 dovrebbe comprare, nei sogni dei direttori commerciali, a un figlio che al massimo le indosserà giocando a PES. L’identità si stabilisce anche per esclusione e noi non siamo americani, non siamo cinesi, non siamo arabi e nemmeno belgi. E il calcio delle nazionali, che come calcio fa mediamente schifo, ce lo ricorda sempre in maniera dolce e commovente.

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