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L’infanzia di Moggi

Stefano Olivari 14/07/2008

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Le autobiografie si leggono meglio delle biografie, non per la qualità della scrittura (anche se di solito il personaggio si fa aiutare da giornalisti amici) ma per qualche lampo di verità che a volte involontariamente esce dalle righe e che ci aiuta ad interpretare meglio episodi su cui pensavamo di sapere tutto. Quella di Luciano Moggi, ‘Un calcio nel cuore’ (Tea, 2007), non fa eccezione. Ma le parti più interessanti non riguardano Calciopoli, su cui Moggi stesso nelle sue varie autodifese da Biscardi, su Libero o da teatrini di provincia ha già puntualizzato il puntualizzabile, bensì quaranta anni di calcio italiano vissuti ad ogni livello: come osservatore dopolavorista della Juventus, come direttore sportivo di squadre che non potevano spendere, come superdirigente di una Juventus riportata in altissimo e poi parzialmente rovinata per sopravvenuto senso di impunità e per essere stato messo nel mirino dalla proprietà. Citazione pasoliniana in apertura (”Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”), evidente farina dei suoi aiutanti (hanno collaborato al libro Enzo Bucchioni e Mario D’Ascoli): non che Moggi non possa apprezzare Pasolini, ma quella di dimostrare che si legge ben altro che la Gazzetta è una delle ossessioni del giornalista sportivo. Moggi non ha bisogno di sentirsi legittimato dalla citazione dotta: può avere altri tipi di fragilità ed insicurezza, ma questa no. La prima parte dell’opera è incentrata sulle intercettazioni. Con una linea unica: così facevano tutti, noi a telefonare a Pairetto siamo stati solo più bravi ed abbiamo generato invidie in chi perdeva. Moggi non è toccato nemmeno dal dubbio che un paese in cui il ministro dell’Interno (Pisanu) chiede a Moggi di aiutare la sua squadra (Torres) sia un paese schifoso: impossibile da cambiare, per l’assenza di un’etica che vada al di là del ‘particulare’, però impossibile anche da prendere a modello positivo. Le discussioni con Bergamo sulle griglie arbitrali, le auto aziendali di Pairetto, i maneggi con Mazzini, le moviole taroccate con Biscardi e Baldas, le schede telefoniche svizzere regalate a pioggia come fossero le solite cravatte: tutto normale, secondo Moggi, nella terra dei furbi. Ma allora secondo questo metro chi l’ha incastrato con intercettazioni parziali è stato più furbo di lui, quindi per l’etica moggiana migliore…Il libro si fa davvero interessante quando parla dei due rami della famiglia Agnelli, esaltando le figure di Gianni e Umberto ma lasciando intendere che il ramo ‘gianniano’ (in sostanza: John, Lapo, Montezemolo) non sia rimasto scontento della caduta sua e di Giraudo, come provato dalla difesa soft durante Calciopoli e dai buonissimi rapporti con Moratti e Tronchetti Provera. Si potrebbe andare oltre, ma qui Moggi allude e basta. Omettendo di ricordare che la sua condanna a morte (in senso dirigenziale) dipese anche dalle voci più o meno fondate su una cordata capeggiata da lui e Giraudo (con dietro un pool di finanziatori, fra cui Gheddafi e Briatore) con l’obbiettivo di sfilare la Juventus alla Famiglia. Interessante anche la ricostruzione dei rapporti con Moratti, che più volte tentò di ingaggiarlo trovando rifiuti in extremis (alcune pagine sull’ambiente Inter sono illuminanti), e di tanti episodi controversi come la cessione di Vieri all’Atletico Madrid tenuta secondo la leggenda nascosta all’Avvocato. La parte in cui il libro diventa avvincente è quella finale, con la storia di una scalata emozionante, dal calcio giovanile toscano alla Juventus, prima come osservatore e poi dopo vario peregrinare (fra il miracolo Torino, qualche amara esperienza romana ed il Napoli di Maradona) da uomo forte. Questo è davvero il miglior Moggi, quello che senza padrini e senza agganci di famiglia si costruisce una rete di relazioni pazzesca, che unita alla competenza nello scegliere e nello schedare (in epoca pre-computer) i giocatori lo porta al grande salto: dalle Ferrovie dello Stato (dove non ha mai agitato palette: non che sia un disonore, ma il suo ruolo era più amministrativo) al calcio che conta. Di cui ha conosciuto ogni personaggio e quasi ogni segreto. Il nostro personalissimo giudizio sul libro è che sia scontato e pieno di concetti già straletti nella parte di autodifesa (al di là di come la si pensi), reticente quando parla dei rapporti con Inter, Milan e famiglia Agnelli, tirato via in alcune parti storiche con riferimenti temporali sbagliati, deludente sul Napoli con un’ode a Maradona che avrebbe potuto scrivere chiunque. Diventa molto valido invece quando tratteggia alcuni personaggi: in particolare la storia dei suoi rapporti con Sergio Rossi, eccellente presidente granata, merita di essere letta. Bellissimi e non retorici i ricordi della giovinezza a Monticiano e della nascita della passione divorante per il calcio. Ingiudicabili invece i capitoli sulla spiritualità, leggibili sia con gli occhiali del misticismo che con quelli della presa in giro. La prosa è scorrevole ma i capitoli più riusciti non sono quelli in teoria organici bensì quelli strutturati a flash seguendo il flusso dei ricordi e delle opinioni. Siamo lontani dal capolavoro, ma comunque su un livello decisamente più alto rispetto alla produzione pro-Moggi degli ultimi anni. Di sicuro la sua storia nel calcio non è ancora finita.

Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it

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