L’imperatore Di Caprio

2 Febbraio 2014 di Stefano Olivari

The Wolf of Wall Street è uno di quei pochi film contemporanei, anche americani, che sfuggano alla tirannia del carino-bruttino e che quindi valgono in ogni caso lo sbattimento di uscire di casa abbandonando lo speciale calciomercato. Al termine delle quasi tre ore di visione può ispirare i seguenti giudizi: a) Era già stato detto tutto, dall’avidità delle masse piccolo borghesi come base delle truffe alla parabola personale del protagonista, 27 anni fa nel Wall Street di Oliver Stone e Michael Douglas; b) Scorsese vuole sempre dimostrare di avere visto molto cinema, anche troppo, manco fosse un Tarantino qualunque: un cucchiaio di Coppola, un pugno di Fellini, un pizzico di Leone, eccetera. Questo non gli ha impedito di girare tanti grandissimi film (nostro podio: Toro Scatenato, The Aviator, Taxi Driver ex aequo con il Colore dei soldi), ma pur avendoli visti tutti non sapremmo dare una definizione del ‘cinema di Scorsese’; c) Un capolavoro allo stato puro, dove convivono registri tutti ugualmente credibili, dal comico al drammatico; d) Monumento a Di Caprio, quasi uno one man show in cui il più grande attore della nostra epoca (anche se mai ha interpretato i travagli interiori di un terrorista di Prima Linea in un film finanziato dallo Stato italiano, grave lacuna nella sua carriera) cita i suoi stessi ruoli del passato; e) Epico, ammorbante, ma troppo lungo.

Impossibile, anche senza averlo visto, non sapere di cosa stiamo parlando. Tratto dall’autobiografia di Jordan Belfort, The Wolf of Wall Street altro non è che la parabola di un agente di borsa che parte piazzando azioni spazzatura di piccole società e raggiunge un successo straordinario anche nel mercato cosiddetto ‘serio’, grazie a insider trading, IPO taroccate (facendo acquistare parte delle azioni collocate a suoi prestanome), quotazioni manovrate ad hoc facendo al tempo stesso la parte dell’intermediario e quella del giocatore. Niente di diverso da tante società e banche presentabili, quelle che finanziano la mostra sugli Etruschi o la sagra del carciofo cara a quel leader politico, ma il primo problema di Belfort è che non fa parte dei giro giusto. Viene da quella piccola borghesia che all’inizio deve spennare, proponendole titoli e prodotti di cui non sa niente. Il suo secondo problema è la droga, dalla cocaina al mitico Qualud (che può spiegare parte dell’arte americana anni Settanta e Ottanta), per certi versi una necessità: alla Stratton, la società di Belfort, si drogano-dopano quasi tutti. Mai vista tanta droga in un film , nemmeno in quelli in cui la droga è un tema centrale. Il terzo problema di Jordan Belfort è che, da addetto ai lavori, sa benissimo che i soldi sono una finzione o, ad andare bene, una convenzione: non gli dà quindi un valore materiale, come potrebbe fare chi non arriva alla fine del mese, ma un significato quasi religioso.

In questa visione rientra il suo non accettare transazioni, né con la giustizia (che ha il volto di un agente FBI, ex aspirante broker) né nella sua vita privata. E’ chiaro poi che il VM 14 è arrivato soprattutto per le scene di sesso ed il modo assolutamente ludico, rilassante e slegato da coinvolgimenti (il migliore, bisogna ammettere: citazione di Tinto Brass?) in cui il sesso viene rappresentato. Poche perversioni (nel 2014 una candela nel culo può essere considerata tale?) e molto divertimento. Il nostro voto è simile a quello dello spettatore d). Grandioso Di Caprio, affascinante anche se non originale storia, ma uno sconfinamento continuo nel grottesco che alla lunga dà fastidio.

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