L’identità dello Sheffield United

Nei quarti di finale di una FA Cup ormai pericolosamente simile alla Champions League la partita più interessante è quella fra il Chelsea e i Blades...

19 Marzo 2021 di Roberto Gotta

Capitano giusti, i quarti di finale di Coppa d’Inghilterra. Sempre più spesso chiamata FA Cup anche da noi, perché si fa prima. Capitano giusti per BT Sport, che ha l’esclusiva televisiva nel Regno Unito, perché delle otto squadre solo una non è di Premier League, ovvero il Bournemouth, che però ne faceva parte lo scorso anno, quindi è un nome fresco. L’esame delle dinamiche degli ultimi anni dice proprio questo, cioé che lo sviluppo della competizione deve (…) seguire certi canoni per soddisfare chi paga per i diritti: la cosiddetta magia della FA Cup va bene a gennaio e febbraio, quando per suscitare l’attenzione, in un periodo frenetico dell’anno, si ha bisogno dello scontro squadrina-grande da pubblicizzare, martellando senza pietà e senza timore di retorica come accaduto, a inizio anno, per Marine-Tottenham. Quando però si arriva dai quarti in poi le piccole è meglio che spariscano, perché di questi tempi, tempi di numeri, di prevalenza del vippismo a danno di tutto il resto, la quantità di persone interessate alla romantica (…) sfida del Chesterfield o del Lincoln City di turno è insufficiente, oltre alla nicchia.

Quel Marine-Tottenham peraltro era stata obiettivamente una sfida mai vista: nei 149 anni di storia della coppa, infatti, era la prima volta che si incontravano due squadre con tale divario, cioé sette campionati di differenza. I media di tutto il mondo avevano battuto il ferro finché era caldo, aiutati in questo dalla particolarità del Marine e del suo stadio, letteramente incastrato tra le case, provinciale anche se situato pochi chilometri a nord di Liverpool, perdendosi però alcuni dettagli importanti come il fatto che Carlo Ancelotti abiti a poca distanza da lì, e passeggi spesso sulla spiaggia. Dettagli che, non casualmente, su Wikipedia non si trovavano. Del Marine non importa più nulla a nessuno, anzi può anche fallire, anche se non lo farà perché dalla pubblicità ha guadagnato una barca di soldi: ora, quarti di finale e successivi, i detentori dei diritti devono vendere le sfide tra grandi, tra personaggi, Ancelotti contro Guardiola, il ChelseaDiTuchel contro il derelitto Sheffield United e così via. A chi devono venderle, però?

Uno studio americano recente ha accertato che sono sempre meno le persone che guardano eventi sportivi in diretta, nella fascia di età sotto i 24 anni: meglio le sintesi, gli highlight con il meglio, perché non c’è tempo-voglia-pazienza di seguire quasi due ore di gioco spesso – va detto – noioso. E se proprio tieni il televisore o il computer acceso ascolti, più che guardare, e ti concentri sul cellulare, sul video dei tifosi fuori dallo stadio, sulla marca delle cuffie che aveva Timo Werner quando è entrato negli spogliatoi e così via. Se allo stadio entra invece Tim Ross del Chesterfield te ne frega molto meno, e nemmeno guardi. Ecco dunque che la narrazione preferita è proprio quella che si sta sviluppando, e che ha assoluto bisogno delle solite 4-5 grandi, nelle partite decisive. Non è sorprendente che i quarti di finale della Coppa d’Inghilterra somiglino sempre di più a quelli di Champions League: al posto di Bournemouth si legga Porto, ovvero l’intrusa che ha già stufato, ma per il resto siamo lì. È un male, tutto ciò? Non necessariamente.

È però giusto rilevare un dato: le dieci finali degli anni Sessanta videro 15 diverse protagoniste, quelle nei Settanta e Ottanta furono 12, 11 nei Novanta e primo decennio del Duemila, 13 di nuovo nel secondo. Uno spostamento apparentemente minimo, anzi una maggiore varietà dal 2010 al 2019, ma se si va a guardare le diverse vincitrici del trofeo il discorso vira: rispettivamente, nove negli anni Sessanta e Settanta (solo il Tottenham e l’Arsenal vinsero due volte), sei negli Ottanta e Novanta, cinque dal 2000 al 2009 e dal 2010 al 2019. Ma i dettagli sono ancora più sconfortanti, per chi ha sempre visto nella FA Cup una competizione in grado di creare grandi storie non solo nei primi turni: delle 29 edizioni dal 1992-93, anno in cui la vecchia First Division si trasformò in Premier League e il potere economico delle grandi crebbe a discapito delle piccole, perlomeno di quelle non stabilmente nella massima serie, 24 sono state vinte da una tra Arsenal (8), Chelsea (7), Manchester United (5), Manchester City e Liverpool (due a testa). E il City si è inserito solo dal 2012.

Vuol dire che, come per la Champions League, il sistema (Sistema?) Tende a favorire sempre le stesse, a porre sempre le stesse nella condizione di essere presenti e trarre i benefici, anche economici, della loro partecipazione avanzata, così che la storia si possa ripetere. Una Superlega senza esserlo, schermata dalle critiche – poche, peraltro: il conformismo non è certo esclusiva dei media italiani – perché offre, nei primi turni, il contentino romanticheggiante delle sfide su campi assurdi e con la storiella rituale del postino-netturbino che sfida il professionista da 10 milioni annui. Non è necessariamente un’involuzione: o meglio, per noi la è, e drammatica, ma nello spostamento delle prospettive e dei valori è un semplice passaggio, quasi indolore per i più. Se poi l’inglese medio sopra i 35 anni ricorda con emozione certe finali degli anni Settanta o Ottanta, magari senza neanche averle viste, e non rammenta invece chi abbia vinto quella del 2011, persa tra mille altri eventi, è altro discorso.

A proposito del derelitto e ormai pressoché retrocesso Sheffield United, in settimana è arrivata la separazione dall’allenatore Chris Wilder, famoso artefice della risalita dalla terza serie, tifoso del club oltre ad esserne ex giocatore. Dello United identitario, composto quasi esclusivamente da calciatori britannici, compresa la manciata di loro che aveva risalito le classifiche partendo da quella terza divisione, si è detto e scritto molto, nel 2019-20: come aveva previsto un importante commentatore italiano, che ahimé ha parlato a orecchie non abituate a scommettere, la caduta anche fragorosa della squadra, al secondo anno, era prevedibile, e forse l’aveva prevista anche Wilder.

Se è vero che l’uscita dal contratto è stata davvero consensuale, «perché in questo momento, seppur dolorosa, era la soluzione migliore» (fonte interna, messaggio arrivato via whatsapp), la motivazione non è tanto nei pessimi risultati quanto nel modo in cui sono arrivati: il peggior inizio di stagione nella storia del calcio inglese, con due soli punti ottenuti nelle prime 15 partite, è nato da un mercato estivo incerto e sbagliato e da un mercato invernale inconcludente. È vero che tutti gli allenatori vorrebbero sempre incrementare il valore della propria rosa, ma Wilder, fedele alla propria filosofia, avrebbe semplicemente voluto giocatori adatti al suo progetto tattico, non particolarmente costosi né celebri: Matty Cash, Ollie Watkins, Jeff Hendrick, i prestiti di Jesse Lingard e Hamza Chodhury.

E invece non sono arrivati nemmeno quelli. Wilder ha avallato, è vero, l’acquisto di Rhian Brewster: l’attaccante ventenne, campione del mondo Under 17 con l’Inghilterra nel 2017 (triplette in quarti e semifinale, primo gol nel 5-2 sulla Spagna in finale), è stato pagato 23,5 milioni di sterline e finora non ha segnato neanche un gol. Le doti le ha: in prestito allo Swansea City in Championship, lo scorso anno, ha avuto 10 reti in 20 partite, e in più la squadra che lo ha ceduto, il Liverpool, era così convinta di lui da aver preteso l’inserimento di una clausola con diritto di riacquisto per 40 milioni ogni estate fino al 2023 e una percentuale del 15% su una futura cessione. Insomma, un fallimento non annunciato, e di cui deve comunque farsi carico lo stesso Wilder, che invece negli ultimi giorni di regno (e nei primi da libero professionista) ha invece parlato un po’ troppo per i gusti degli osservatori neutrali, rivelando che gli era risultata sgradita persino l’intervista televisiva prenatalizia in cui il proprietario Abdullah bin Musaad bin Abdulaziz Al Saud gli confermava la fiducia a prescindere.

Che sia stato colpevole di eccessiva fedeltà ai giocatori che lo avevano seguito nell’esaltante – e comunque indimenticabile – viaggio dalla terza serie ad una qualificazione all’Europa League sfiorata nel 2019-20 o di non aver saputo comunicare con serenità con i vertici, Wilder ora seguirà da fuori il tentativo dei Blades di vincere a Stamford Bridge e approdare alla semifinale, che già giocarono nel 2015, da squadra di terza serie, all’epoca però allenata da Nigel Clough, figlio di Brian. La prima partita dello Sheffield United post-Wilder però non è andata benissimo: un netto 0-5 a Leicester, una partita che se dovesse essere giudicata a pelle, cialtronescamente, sarebbe la piena, totale dimostrazione che a vedere il rendimento dei giocatori, apparsi allo sbando, il colpevole non era certo il loro ex allenatore.

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