L’eskimo in redazione, i bei giornali di una volta

6 Marzo 2016 di Stefano Olivari

La fusione Repubblica-Stampa-Secolo-eccetera già definita e quella Corriere della Sera-Sole 24 Ore scenario credibile hanno già scatenato i rimpianti per il presunto bel giornalismo di una volta, quello che mai si sarebbe conformato al pensiero unico. Leggendo a distanza di oltre quarto di secolo L’Eskimo in redazione – Quando le Brigate Rosse erano ‘sedicenti’ viene qualche dubbio, perché Michele Brambilla già nel 1990 ebbe il merito di analizzare gli anni di piombo, non ancora storicizzati perché molti dei suoi protagonisti erano ancora in pista, dal punto di vista di chi li avrebbe dovuti raccontare ai lettori. I giornalisti, insomma. Un libro che suo tempo generò fortissime polemiche, dovute alla cattiva coscienza di una stampa che aveva sottovalutato i pericoli del terrorismo rosso continuando a sostenere la tesi che si trattasse di operazioni portate avanti da fascisti mascherati, al soldo della CIA o di indefinibili poteri forti.

Brambilla, attuale direttore della Gazzetta di Parma, si muove su più fronti. Il primo è proprio quello della paternità dei crimini, anche quando chi li aveva commessi li rivendicava con orgoglio e la sua storia politica era evidente. Così per anni, fino a quasi il sequestro Moro, le Brigate Rosse quando venivano nominate erano accompagnate nell’articolo dall’aggettivo ‘sedicenti’. Le sedicenti Brigate Rosse, così come sedicenti erano altri gruppi della stessa area, altro non sarebbero stati che gruppi di destra diretti astutamente dalle forze della reazione: questo si leggeva sul Corriere della Sera e su altri grandi giornali nazionali, con la ovvia eccezione del Giornale che nel 1974 Indro Montanelli fondò proprio per sfuggire al pensiero unico e perché non si riconosceva più nel Corriere di Piero Ottone.

Il secondo fronte su cui si muove Brambilla è quello del doppiopesismo. L’attentato rivendicato dal neofascista è indubbiamente opera sua, quello del brigatista una manovra per influire sul voto popolare ed impedire l’arrivo del PCI al governo. Questi della maggioranza silenziosa e della CIA però avevano sbagliato i calcoli, visto che alle Politiche del 1976 il partito allora guidato da Enrico Berlinguer toccò il suo massimo storico superando il 34% dei voti. Il doppiopesismo si applica anche alle vittime: quella di destra è uno che in qualche modo se l’è cercata (esempio classico Sergio Ramelli, iscritto al Fronte della Gioventù ma non certo un attivista) mentre quello di sinistra è la vittima di uno Stato reazionario.

E qui si arriva ai tanti uomini dello Stato maltrattati anche dai giornali cosiddetti borghesi, quelli con lettori che istintivamente avevano più fiducia nel prefetto Mazza che in Sofri. Il caso Calabresi è da manuale, con una campagna di odio senza precedenti che non fu soltanto di Lotta Continua (tra i tanti firmatari del documento dell’Espresso in cui veniva definito ‘commissario torturatore’ svettavano Eco, Fellini, Bobbio, Guttuso, Scalfari, Bocca, Moravia…) e che terminò con l’assassinio di Calabresi, ma anche i magistrati capaci di mantenere equilibrio (fra questi Gerardo D’Ambrosio) venivano giudicati con sospetto perché facevano il gioco del ‘nemico’. Brambilla mette insieme verità giudiziarie, semplice logica e articoli dell’epoca, in un affresco che sarebbe esilarante se non fosse popolato di morti e di violenza ideologica.

Non classificabile il Corriere della Sera che non comprò la foto più famosa degli anni di piombo (quella scattata in via De Amicis, a Milano, durante gli scontri in cui fu ucciso il vicebrigadiere Antonio Custra) e che non mise il nome di Montanelli (non ancora icona anti-berlusconiana) nel titolo dell’articolo sulla sua gambizzazione, imbarazzanti le tante ipotesi fatte sulle morti di Pasolini e Feltrinelli (con la scomparsa del ‘Se la sono cercata’), di assoluto culto gli articoli che mettevano in relazione la strage dei Graneris (storia con cui Vespa oggi farebbe 1.200 puntate di Porta a Porta), assimilabile per certi versi alla vicenda di Pietro Maso, con una vendetta contro partigiani comunisti. Solo in pochi, non a caso i più grandi (su tutti Bocca), seppero poi fare autocritica, ma in generale davanti all’evidenza dei fatti si preferì la notizia asettica o il silenzio. Insomma, nemmeno editori diversi possono fare più di tanto contro il pensiero unico, che a prescindere dalla realtà ha già i suoi buoni e  i suoi cattivi.

La forza di questo libro, per niente datato nonostante abbia ormai più di 25 anni, è proprio questa: il pensiero unico non è una tavola di leggi imposte da un grande vecchio, ma un conformismo a cui quasi tutti si adeguano per pigrizia e soprattutto convenienza. L’abbiamo visto applicato al terrorismo di sinistra come all’europeismo, al liberismo come all’immigrazione, a seconda dei periodi, con una ‘linea’ a cui la maggioranza si adegua perdendo ogni capacità critica e svegliandosi troppo tardi. Ma qui già stiamo andando sui massimi sistemi, dimenticando una questione mai davvero analizzata: l’intolleranza quasi genetica della sinistra (e non parliamo di terrorismo o violenza fisica) nei confronti di chi la pensa diversamente, che non si esprime con la spranga ma in maniere molto più sottili e durature.

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