Musica

L’era del karaoke

Andrea Ferrari 02/05/2012

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“Lo conosci Bowie?” “No” “Lou Reed? “No”. Con questo dialogo imbarazzato e imbarazzante alla radio tra Mario Luzzatto Fegiz ed Alessandra Amoroso (fu la sua prima intervista in assoluto) si apre “Io odio i talent show ”, lo spettacolo teatrale di colui che è il critico musicale di punta del Corriere della Sera da quasi quarant’anni. Duplice la chiave di lettura del titolo. Quella politically correct è che il critico ormai non è più in grado d’orientare i gusti del pubblico, “non sposta più copie”. Quella che invece preferiamo è che questi “talent show” più che dare chance a gente di talento sono l’apologia del karaoke e alla fine creano veri e propri miracolati che che dal punto di vista artistico non hanno niente di più di tanta gente che canta nei pianobar. La più grande colpa, secondo chi scrive, è il voler perpetuare l’equivoco secondo il quale tutto ruota attorno al ruolo dell’interprete quando il vero problema della scena musicale attuale  è che non ci sono più autori degni di nota (basti vedere come da un po’ di anni sono spariti anche i tormentoni estivi), per non parlare dell’eccessiva enfasi data al virtuosismo vocale,  dote che nella “musica leggera” (definizione pessima che però siamo costretti ad usare) conta pochissimo. Tornando allo spettacolo, abbiamo apprezzato molto la scelta di intervallare i racconti di Fegiz con brevi filmati ed estratti da trasmissioni radiofoniche, oltre che con brani reinterpretati dal chitarrista-cantante Roberto Santoro e dal fisarmonicista russo Vladimir Denissenkov. Diversi gli aneddoti gustosi: dal notaio del Festival di Sanremo rivisto anni dopo sul palco del Piccolo Teatro di Milano alle vacanze in compagnia del duo Mogol-Battisti, ai dettagli riguardanti l’indagine farsa sulla morte di Luigi Tenco (abbiamo scoperto che a Sanremo esiste un obitorio riservato a chi si suicida dopo aver perso al casinò!).  Insomma uno spettacolo che tra momenti d’ilarità ed altri commoventi, come quando viene raccontata la nascita di “Caruso” di Lucio Dalla, non è caduto nella trappola  dell’autocelebrazione, un rischio tutt’altro che remoto in un mondo come quello del giornalismo musicale pieno di personaggi che si credono padreterni. Onore quindi a Fegiz, uno dei pochi a sapere prender le cose nel modo giusto e a non tirarsela più di tanto.

Andrea Ferrari, 2 maggio 2012

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