Le tre bombe di Mazzola

3 Marzo 2017 di Stefano Olivari

Per varie ragioni scriviamo di calcio meno di una volta, ma non certo perché lo seguiamo di meno. Siamo quindi fuori allenamento, per questo non comprendiamo come mai l’intervista di Sandro Mazzola al Corriere della Sera (fatta da Aldo Cazzullo), pubblicata domenica scorsa, non abbia avuto un’adeguata ripresa né mediatica né politico-sportiva. Eppure in poche ma non pochissime righe c’era tantissimo: ferite personali, chiarimenti dolorosi, ritorno su fatti pesanti, noti e meno noti. Se i giornali facessero i giornali, con interviste come queste (basterebbe avere 8 pagine e non 64, tenendo solo i giornalisti capaci e mandando gli altri a fare un altro mestiere), avrebbero davvero un futuro perché oltre la decima riga qualsiasi cosa scritta sul web diventa illeggibile.

Tralasciamo la dolorosa infanzia dell’ex campione dell’Inter e della Nazionale, separato dal fratellino (che non sapeva nemmeno di avere) e orfano conteso fra due famiglie a 7 anni, e veniamo al calcio. Qui le bombe di Mazzola sono sostanzialmente tre, che sintetizziamo invitando a leggere l’articolo integrale, in mezzo a tante altre storie (il quasi passaggio alla Juventus, le commoventi parole di Puskas). La prima: nella grande Inter il mago Herrera dava ‘pastigliette’ ai giocatori. La seconda: al Mondiale del ’70 gli azzurri si misero d’accordo con l’Uruguay per pareggiare la partita del girone ed andare entrambi ai quarti di finale. La terza: al Mondiale del ’74 all’intervallo di Italia-Polonia Mazzola fu mandato (evidentemente dai dirigenti federali, anche se non lo dice) negli spogliatoi polacchi a comprare la partita, promettendo a Deyna e compagni l’incasso di un’amichevole e altro.

Delle pastigliette di Herrera, pratica diffusa nel calcio dell’epoca, si era già parlato (poco) all’uscita dell’autobiografia di Ferruccio ma non per questo il tema è meno interessante. Non fosse altro che perché a parlarne è un protagonista di quell’Inter, non uno che ne era ai margini, pur precisando che il vero doping di Herrera era quello psicologico (le mitiche ‘motivazioni’, variante di ‘la mano di’). Del tentativo di corruzione in Germania aveva già scritto qualcuno all’epoca, a partire da Gianni Brera (che purtroppo alcuni ricordano solo per il Winco o sbrodolate sulla cucina lombarda), basandosi su rivelazioni degli stessi polacchi, ma l’episodio era per noi così vergognoso che in Italia subito era calato il silenzio. Non avevamo invece mai sentito dell’episodio del ’70, se non sottoforma di tacito accordo da ‘uomini di calcio’, nel senso peggiore dell’espressione: è evidente la differenza fra il giochicchiare per reciproca convenienza e il mettersi d’accordo prima.

Insomma, la giustizia sportiva e quella penale prevedono la prescrizione e nessuno può oggi togliere le coppe all’Inter di Herrera (ammesso che fosse doping e non l’ipocrita ‘abuso di farmaci’ con cui in Italia si sono salvati quasi tutti) o il secondo posto agli azzurri in Messico, ma la verità storica è un’altra cosa. Finché i testimoni sono vivi ci sarebbe materia per discuterne e per scriverne. Perché chi legge è molto meglio di chi non legge e nel 2017 tende a lasciare in edicola chi è convinto di rivolgersi a subnormali.

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