L’azienda Roma e la fine di Monchi

7 Marzo 2019 di Indiscreto

Alla Roma ben prima dell’eliminazione dalla Champions League c’era il caso Monchi, al netto dei soliti discorsi su Di Francesco e dintorni. Adesso da guru del mercato ma con un’etica, non come quei loschi mestieranti di direttori sportivi italiani, il dirigente spagnolo è diventato il simbolo di quel calcio trattato come un’azienda qualsiasi, che piace tanto ai giornalisti 4.0 (ci siamo persi il 3.0, anche nell’industria) ma un po’ meno ai tifosi. E alcuni di questi tifosi lo hanno fatto presente proprio a Monchi, prima di imbarcarsi sul volo di ritorno per Roma. Parole grosse, ma niente di più: pistolotto sugli ultras da rimandare ad altre occasioni, magari se qualcuno di loro segherà una ragazza viva.

Di certo Monchi sembra in ogni caso in uscita e non è nemmeno tutta colpa sua, visto che un direttore sportivo opera all’interno di un budget prefissato e soprattutto di strategie decise più in alto di lui. E la strategia è soltanto una, simile a quella di altre concorrenti italiane: rimanere nel giro della Champions League, vendere bene giocatori che è possibile vendere bene, parlare soltanto di un futuro meraviglioso fra stadi megagalattici e merchandising internazionale.

Pochi passi indietro, fino al marzo 2017. Monchi, dopo tanti anni eccezionali (in rapporto ai mezzi e alle avversarie) al Siviglia, sta per firmare con il Real Madrid. Non solo: ma Franco Baldini, allora come adesso consulente globale di Pallotta, sembra sul punto di tornare operativo sul campo per rifondare un club da cui è in uscita Spalletti, fra uno scazzo con Totti e l’altro. Amministratore delegato è Gandini, direttore sportivo Massara, uomo di Walter Sabatini (dimessosi qualche mese prima), ma non è ben chiaro chi decida. Pallotta, non si sa quanto ispirato da Baldini, vorrebbe ingaggiare Roberto Mancini ma prima aspetta che Spalletti comunichi l’addio. Intanto Florentino Perez non rimane colpito dall’incontro con Monchi: troppo indipendente e manovriero per i suoi gusti, a lui piacciono i dirigenti-esecutori dello ‘Zidanes y Pavones’ che da sempre è la filosofia del Real.

Così Monchi torna a farsi vivo con la Roma e dopo un incontro londinese con Baldini e Pallotta c’è l’accordo: tre anni e un compito ben chiaro, quello di far vivere il club di puro trading. Dopo un balletto fra vari allenatori (a un certo punto anche Gasperini), Pallotta-Baldini-Monchi decidono di desabatinizzare la Roma senza ostacolare Spalletti nel suo viaggio verso Milano ed ingaggiano Di Francesco, il tipico emergente che a Monchi piace, quel tipo di allenatore con una imprecisata filosofia, bravo ad allenare i giocatori (e l’anno scorso si è visto) ma soprattutto i giornalisti.

E veniamo quindi al mitico player trading. Nell’estate 2017 arrivano Defrel, Ünder, Gonalons, Schick, Kolarov, Karsdorp, Hector Moreno e Lorenzo Pellegrini, mentre vengono venduti a ottimo prezzo Salah, Rüdiger, Paredes e Mario Rui. Nel gennaio seguente Monchi piazza bene al Chelsea anche Emerson Palmieri. Nell’estate 2018 vengono ceduti benissimo Skorupski, Strootman, Nainggolan e soprattutto Alisson, mentre arrivano, solo per citare i più pagati, Olsen, Nzonzi, Pastore e Kluivert, oltre a Santon e Zaniolo nell’affare Nainggolan e all’inspiegabile Marcano. Facili i calcoli dei puri cartellini, visto che la Roma è quotata in Borsa ed è obbligata a comunicare i dati ufficiali, che danno il player trading nell’era di Monchi in zona più 100 milioni nell’arco di due  stagioni. Meno facile capire se Monchi ha operato bene, visto che tutti i suoi grandi colpi in uscita sono stati giocatori acquistati da Sabatini o da altri.

Chiaramente anche Monchi preferirebbe avere un budget di 500 milioni e andare a fare offerte a Neymar, ma guardando alle due edizioni della Roma che ha costruito non si può certo dire che abbia fatto meglio di Sabatini. Di sicuro è l’uomo che ha indicato la porta d’uscita a Totti, cosa che nemmeno Pallotta aveva il coraggio di fare. Come altri, non ha capito che i tifosi non hanno la pretesa di vincere la Champions o addirittura di soffiare lo scudetto alla Juventus, ma quella di vedere la propria squadra come qualcosa di unico, come un punto di arrivo e non di transito. Tifosi, non clienti.

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