L’atletica di Stefano Mei

7 Settembre 2016 di Stefano Olivari

A Rio l’atletica italiana ha toccato il punto più basso degli ultimi sessanta anni, non lo diciamo tanto per dire (zero medaglie come a Melbourne 1956), ma Alfio Giomi ha lo stesso buone possibilità di essere rieletto presidente della FIDAL. Comunque alle prossime elezioni troverà un avversario temibile in Stefano Mei, che a Milano ha presentato la sua candidatura di fronte a monumenti dello sport italiano come Livio Berruti e Andrea Zorzi. Se il Mei atleta è conosciutissimo (storico l’oro nei 10000 agli Europei 1986, davanti a Cova e Antibo, da non dimenticare nemmeno le altre medaglie europee e il primato italiano dei 1500), ma anche il dirigente non è improvvisato visto che dal 1996, da quando fu eletto nel consiglio regionale ligure della FIDAL, in poi ha ricoperto varie cariche in mezzo alle sue altre attività (commentatore tivù, presidente di società, poliziotto presso la Questura di Forlì). La campagna elettorale sarà lunga e Mei non ha voluto scoprire tutti i nomi della sua squadra (Tilli? Donati? Sono ipotesi che girano…), ma alcuni punti fermi sono già stati enunciati.

Primo: netta divisione fra gli atleti top, quelli in grado di partecipare ai grandi eventi, e gli altri. Le gestione dei top deve tornare ad essere forte, senza deleghe o fughe all’estero, attraverso pochi centri di preparazione con tecnici professionali (“Ma non professionistici”, ha tenuto a precisare Mei). Secondo: convivenza con i gruppi sportivi militari, che Mei del resto non può certo criticare (è un poliziotto), ma incentivando (con soldi, quindi) gli atleti anche forti a rimanere in società civili fino almeno ai 21 anni. Terzo: ricambio dirigenziale, con gente che venga dall’atletica. “Nella FIDAL ci sono dirigenti lì da trent’anni, lo stesso Giomi stava già lì quando io ero nelle nazionali giovanili. Al di là delle persone serve un cambio di politica: il male non può essere la cura del male stesso”. Quarto: italianità. “Punteremo sui ragazzi cresciuti come atleti in Italia, anche per motivare la base: non ci sarà alcuna campagna acquisti. L’Italia non può essere come il Bahrein”.

Quinto: agonismo. “I master e gli amatori, chiamiamoli atleti adulti se no qualcuno si offende, sono stati finora visti come una mucca da mungere. Del resto è logico che un quarantenne abbia a disposizione più soldi di un ragazzo. Il punto è che i nostri sforzi devono essere concentrati sull’atletica giovanile, per arrivare a risultati nell’agonismo vero. Tutto il resto dell’atletica deve essere al servizio dei giovani”. Sesto: risultati. “Il fallimento dell’Italia nel quadriennio che ha portato a Rio e in particolare ai Giochi non si può ridurre alle medaglie, perché magari Tamberi sano ne avrebbe vinta una e forse anche d’oro, ma a pochissime presenze in finale e a un livello medio che non si può accettare. I talenti ci sono e dobbiamo far sì che i risultati a livello giovanile vengano confermati anche da senior. Poi l’atletica va valutata diversamente da altri sport: è praticata in tutto il mondo e anche un ragazzo di un piccolo paese può vincere”. Settimo: no al doping. “La mia storia parla da sola, da atleta sono sempre stato lontano da certe pratiche e ancor più lo sono da dirigente. I controlli antidoping non sono curati dalla FIDAL, ma a livello di cultura non ci saranno compromessi”.

Pensare che un ex grande atleta possa fare meglio di chi non lo è stato è semplicistico, e la gestione Arese in parte lo dimostra, ma di sicuro Mei non ha cambiali da pagare né la necessità a tutti i costi di diventare presidente. Comunque la si veda, la sua è una situazione interessante: l’ex atleta che vuole arrivare al potere non basandosi soltanto sulla sua immagine vincente, come in troppi pretendono di fare, ma anche su una solida esperienza dietro la scrivania. Lo slogan che accompagna la sua candidatura è ‘L’orgoglio del riscatto’, all’atletica italiana per ripartire sarebbe già sufficiente l’orgoglio.

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