L’arte assoluta di Ornella Vanoni

20 Dicembre 2016 di Stefano Olivari

“Non ce li toglieremo di torno tanto facilmente”: così Ornella Vanoni ha chiuso il suo concerto di ieri sera al Teatro Dal Verme di Milano (nostra prima presenza in loco quarant’anni fa con la scuola, per uno spettacolo di Febo Conti), riferendosi non soltanto agli attentatori di Berlino. La notizia le era arrivata in camerino, fra un bis e l’altro con il pubblico in delirio, ed ha riportato bruscamente alla realtà e agli schermi dei loro smartphone 1.500 persone che avevano vissuto un’ora e mezza di magia. Sì, perché la Vanoni a 82 anni è stata sui suoi massimi livelli interpretativi, al netto dell’ovvio declino fisico. Ci ha fatto sorridere con le sue considerazioni sull’universo femminile, con vari doppi sensi, e sulla politica (“Per me è finita prima di Craxi”), ci ha commosso in moltissimi punti (‘La famosa volpe azzurra’ vetta assoluta, Leonard Cohen tradotto da De André e Sergio Bardotti), ci ha ammaliato con la sua alternanza fra gag più o meno improvvisate sull’età e il dominio totale di un palco dove è stato fantastico ascoltare soltanto musicisti e non computer: pianoforte, chitarra, violoncello, qualche incursione al basso dell’ospite Saturnino, ma soprattutto la tromba di Paolo Fresu.

Troppo famoso per essere di culto, Fresu è stato come al solito bravissimo ma rispetto ad altre volte in cui lo abbiamo sentito è stato intelligentemente gregario, seguendo la Vanoni nei suoi cambi di ritmo e nel suo complicato rapporto con il gobbo (“Sto diventando cieca”, ha spiegato senza scherzare) senza mai farsi prendere dal trip dell’assolo. ‘Ornella Vanoni – Paolo Fresu, l’arte e l’incontro’ non rimarrà solo un tour ma diventerà anche libro fotografico (foto di Michael Putland) e dvd, per quanto ci riguarda già prenotato. La scaletta di ieri è stata un misto di Brasile, De André, Elton John (una ‘Sorry seems to be the hardest word’ molto carica), Dalla (L’ormai insopportabile ‘Caruso’, che lei ha reso sopportabile), una versione di ‘My Way’ da farla sembrare scritta solo per lei più alcuni suoi storici successi, con esclusioni eccellenti (‘La musica è finita’ e ‘L’appuntamento’, per dirne due) ma anche concessioni al pubblico. Essendo il concerto a Milano temevamo, come in altre occasioni, di ascoltare le canzoni del periodo della mala (finta mala, oltretutto), che riteniamo il più artificiale della sua carriera (l’idea era stata di Strehler) anche se è quello che di fatto l’ha lanciata, ma i timori erano per fortuna infondati.

Sarà l’età, non possiamo dire la nostalgia perché la Vanoni aveva già successo quando non eravamo ancora nati, ma al Dal Verme questa donna incredibile è riuscita a toccare corde profondissime non soltanto in noi. Come se avesse evocato un mondo ormai perduto, di gioie e dolori ma prima di tutto di libertà (la sua vita lo dimostra) e incontri. Molto Vanoni e molto milanese quando ha evitato ammiccamenti ruffiani al pubblico di casa (siamo insomma lontani da Madonna a Pacentro ma anche dal medio mestierante italico del genere ‘Voi sì che siete un pubblico caloroso’, che si trovi a Vipiteno o a Sorrento), del resto lei gioca in casa dappertutto. Entusiasmo quando sulla scena è comparso il suo cane, stranamente contento di essere in mezzo alla confusione (la coda era su ed era tranquillissimo), forse metafora di un’innocenza perduta ma forse anche metafora di un cane e basta. Con il suo carisma, figlio anche di un clamoroso misto di fragilità e forza, la Vanoni ha poi impedito il solito sbandieramento di schermi illuminati: mai visti così pochi aspiranti youtuber, tutti eravamo inchiodati di fronte all’arte e all’artista nelle loro versioni più pure e assolute.

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