L’allenamento italiano dei nuovi italiani

23 Giugno 2014 di Stefano Olivari

L’Italia dell’atletica non è retrocessa nella serie B europea, ma con la formula a 12 nazioni (scendono in 3: stavolta è toccato a Olanda, Repubblica Ceca e agli africani di Turchia) bisogna davvero impegnarsi per farlo. La due giorni di Braunschweig è stata alla fine chiusa al settimo posto, lo stesso piazzamento dell’anno scorso, grazie ad alcuni guizzi domenicali che hanno in qualche modo neutralizzato le tragiche prestazioni di sabato, dove in negativo vanno citati i 5.000 di Jamel Chatbi, chiusi camminando, il triplo della La Mantia e il lungo di Tremigliozzi, con misure giovanili. In positivo, rapportando tutto al possibilità, il più 80 metri di Bonvecchio nel giavellotto, i buonissimi 800 di Benedetti, ma soprattutto le prestazioni straordinarie di mezzofondiste che ci hanno davvero emozionato: Del Buono nei 1.500, Roffino nelle siepi, Magnani nei 3.000 e Viola nei 5.000. Come troppo spesso avviene, quelli che dai media italiani vengono pervicacemente definiti ‘nuovi italiani’ (mettendo sullo stesso piano chi è atleticamente italiano e chi da adulto ha cambiato nazionalità sportiva perché al suo paese era scarso), hanno fatto in media peggio di quelli vecchi. Da quelli da copertina, tipo la Grenot, a quelli meno noti al pubblico generalista come la Alloh e appunto Chatbi (senza fare Prandelli, era proprio necessario italianizzare uno squalificato tre anni per doping?). Farlo notare mette in crisi decenni di ragionamenti razziali e anche auto-razzisti, fatti per giusticare incompetenza dei tecnici (tutti guru, mai sentita un’autocritica: gli allenatori italiani, in ogni sport, sono per definizione i migliori del mondo) e soprattutto limiti strutturali nel reclutamento: se all’atletica vera, non quella di noi quarantenni, arrivano le mezze seghe, per parlare chiaro, già filtrate da altri sport è chiaro che nemmeno un genio dell’allenamento o del dopaggio può invertire questa tendenza.

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