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Atletica

L’abolizione dei keniani

Stefano Olivari 09/01/2015

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L’ultima edizione maschile del Campaccio ha indicato all’atletica italiana una strada, che bisognerà avere il coraggio di percorrere per motivi sportivi e finanziari. E non soltanto nel cross. Una strada che si può sintetizzare in questo modo: gli africani di prima fascia non li possiamo pagare, quelli di seconda fascia stravincono senza portare immagine, tanto vale proporre il prodotto nostrano e creare interesse con ragazzi che possano rappresentare un modello per così dire accessibile (tutto con un gigantesco asterisco, se il caso Jeptoo prenderà una certa piega). Andrea Lalli e Daniele Meucci, da maratoneti quali ormai sono, hanno ottenuto un secondo e un terzo posto alle spalle dell’americano Ritzenheim e conquistato un minimo spazio mediatico fra una bufala di calciomercato e l’altra. L’ultimo italiano a salire sul podio della manifestazione di San Giorgio su Legnano era stato Umberto Pusterla, nel 1994 secondo dietro a Gebrselassie (già il nome del vincitore fa capire quali fossero i budget dell’epoca, anche se si trattava di un Gebre ventunenne), mentre dell’anno prima è l’ultima vittoria italiana con Francesco Panetta: per il campione mondiale nelle siepi a Roma 1987 il quinto successo e non certo per la modestia degli avversari. Altra storia nella gara femminile (6 chilometri, contro i 10 dei maschi), dove le africane c’erano e dove Federica Del Buono e Nicole Reina ci hanno fatto ancora una volta sognare: il settimo e il dodicesimo posto, in un ambiente che non è il loro (la ventenne Del Buono è una miler e la diciassettenne Reina pur avendo la distanza ‘dentro’ preferisce la pista) valgono tantissimo. Il punto è molto semplice: nessuno dice che la Juventus-Lalli è una squadra di sfigati perché domina in Italia ma non in campo internazionale, non si capisce perché negli sport individuali questo principio non debba valere. È anche una colpa dei giornalisti del genere ‘Pellegrini soltanto quinta nella finale olimpica’, ma sono comunque considerazioni alla portata di tutti. Perché uno slalomista nigeriano dovrebbe continuare ad arrivare dietro al duecentesimo austriaco, quando potrebbe trovare una dimensione in ambito locale e solo dopo provare il salto di qualità mondiale o olimpico? In questo senso qualcosa si sta muovendo nel tennis, dove già di fatto i costi logistici permettono pochi grandi viaggi a chi è piazzato dalle centesima posizione ATP in su (basta osservare i tabelloni dei tornei challenger o di certi ATP minori, dove il montepremi permette di rientrare delle spese solo a chi va molto avanti), ma sono un po’ tutti gli sport individuali che devono essere ripensati in questo senso. Con il calcio come modello, per una volta. Nessun italiano nei 23 in corsa all’inizio per il Pallone d’Oro 2014, ma non è che guardiamo con compatimento a Pirlo, De Rossi, Ranocchia o De Sciglio.

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