La vittoria del Bene

30 Novembre 2007 di Stefano Olivari

C’è stato un tempo in cui calciatori di prima grandezza erano costretti a una carriera di media grandezza, per motivi politici, protezionismo economico, autarchia sportiva. Quanti campioni del cosiddetto Est sono stati sottovalutati dalla storia solo perché non hanno avuto il palcoscenico di una delle nazioni che danno immagine? Perché può anche non piacere, ma purtroppo funziona così, almeno fino a quando i grandi sponsor e i grandi mercati mediatici non saranno in Bulgaria o in Moldova… Tanti, i sottovalutati, soprattutto all’inizio dell’era televisiva (prima della tivù, paradossalmente, era più facile diventare miti fuori dai soliti giri), e fra questi di sicuro Ferenc Bene, uno dei migliori calciatori ungheresi della generazione che prese il posto di quella dei fenomeni (in questo caso fenomeni veri), campioni olimpici 1952 e vicecampioni mondiali 1954. In pochi nel mondo hanno toccato le vette, come singoli al servizio della squadra, di Puskas, Hidegkuti e Bozsik, figuriamoci restringendo il discorso all’Ungheria. Però già due anni dopo la fuga all’estero di alcuni dei principali campioni, che avevano salutato sia il comunismo applicato fuori dal campo che quello sportivo di Gusztav Sebes, l’Ungheria fu capace di riformare uno squadrone sotto la guida di Lajos Baroti. Accesso ai quarti di finale impedito dal Galles di John Charles nel 1958, e quarti di finale raggiunti nel 1962, con una semifinale sfumata solo per le straordinarie parate del cecoslovacco Schrojf, che poi nella finale avrebbe regalato due gol al Brasile (quelli di Amarildo e Vavà). A Tokio nel 1964 di nuovo campioni olimpici, con un trascinatore assoluto: il nostro Bene, dodici gol nel torneo (fra i quali tutti, e ripetiamo, tutti quelli del sei a zero al Marocco), di cui uno decisivo nella finale vinta due a uno contro la Cecoslovacchia. Attaccante velocissimo, del tipo nervoso, non era un fenomeno di opportunismo ma aveva la capacità di segnare da ogni posizione una volta arrivato al limite dell’area. In epoca di Olimpiadi riservate a finti dilettanti la differenza fra nazionale olimpica e e nazionale maggiore era in pratica inesistente, in certi paesi, quindi per Bene la promozione fu immediata. E si arriva al Mondiale 1966, dove l’Ungheria di Lajos Baroti finisce in un girone difficilissimo, con il Brasile bicampione del mondo, il Portogallo di Eusebio e la Bulgaria. L’esordio all’Old Trafford, contro il Portogallo che non è solo Eusebio, ma anche Coluna, Augusto, Simoes, eccetera, un Portogallo dalla guida tecnica ambigua (come selezionatore Afonso e come allenatore il brasiliano Otto Gloria, pastrocchi che all’epoca si usavano molto), ma comunque nazionale emergente dell’epoca sulla scia dei successi del Benfica. Nemmeno il tempo di iniziare ed Eusebio travolge mezza difesa ungherese conquistando un calcio d’angolo, dalla cui battuta nasce il gol di testa di Augusto. Dal tabellino non si direbbe, ma dalle immagini di quella partita si vede un’Ungheria dominatrice per tutto il primo tempo, con il grande Florian Albert (l’anno dopo sarà eletto Pallone d’Oro) rifinitore, Farkas e Nagy schegge relativamente impazzite, e Bene finalizzatore che dopo un’ora di supremazia schiacciante finalizza sfruttando una presa difettosa di Carvalho su tiro di Albert. L’Ungheria si butta in avanti, ma il dio del calcio dice Portogallo: cross senza tante pretese di Torres, uscita incerta di Szentmihalyi (con la giustificazione di un infortunio: non c’erano sostituzioni), e altro colpo di testa vincente di Augusto. Bene e Albert sfiorano due volte il pareggio, ma nel finale un corner battuto da Eusebio trova un altro colpo di testa decisivo, questa volta di Torres. Tre a uno Portogallo: probabilmente qualche giornale dell’epoca scrive che ‘la squadra lusitana è stata più concreta’. Ma nella storia del Mondiale non si rimane solo per la concretezza, come tutti sanno, e così il 15 luglio a Liverpool (Goodison Park) si assiste a una delle più belle partite di quel torneo: Ungheria-Brasile. Pelé non è della compagnia, massacrato dal bulgaro Zhechev nella partita d’esordio, ma il materiale a disposizione di Vicente Feola non è certo di scarto: glorie degli squadroni 1958 e 1962 (su tutti Garrincha, ma anche Gilmar e Djalma Santos) e campioni in grandissima ascesa (Gerson, Tostao, Jairzinho, che quattro anni più tardi si sarebbero fatti ricordare). Bene, schierato sulla destra, inizia in maniera straordinaria: il capitano Sipos lo lancia e lui dribbla Altair, con una finta di corpo beffa Bellini e con un sinistro al millimetro mette la palla nell’angolo basso, sul palo vicino. Il gol più bello di quel Mondiale: cosa chiedere di più alla vita? Il Brasile è il Brasile e pareggia con un gran sinistro del ragazzino Tostao, diciannove anni e non sentirli. Ma è l’Ungheria che entusiasma gli spettatori neutrali, con giocate degne dell’edizione 1954: da urlo una triangolazione di testa fra Bene ed Albert, con grandioso intervento di Gilmar. Al 20′ del secondo tempo altra meraviglia: Albert lancia il solito Bene sulla destra, cross morbidissimo in mezzo all’area e Farkas che all’altezza del dischetto del rigore lascia cadere il pallone e batte in maniera sublime. Otto minuti dopo ancora Albert lancia Bene (non stiamo inventando, la partita è quasi tutta così: per fortuna ci sono buone immagini), che va via secco ad Altair e viene falciato da Paulo Enrique. Rigore di Meszoly e tre a uno finale. Il Brasile non perdeva dal 1954, quando era stata un’altra Ungheria a batterlo in una partita piena di prodezze e di botte (quarti di finale, la famosa ‘Battaglia di Berna’, con tre espulsi ed una rissa epocale negli spogliatoi). Da ricordare anche la cinquantesima e ultima partita in nazionale di Garrincha: quella giocata peggio e l’unica (su cinquanta…) persa.Dopo la sconfitta brasiliana con il Portogallo all’Ungheria basta un pari per andare ai quarti: all’Old Trafford missione compiuta contro una Bulgaria che ci crede, va in vantaggio dopo un quarto d’ora, ma viene poi asfaltata da una qualità superiore. Tre a uno, con gol del tre a uno sempre di Bene, ancora migliore in campo. I quarti di finale di quell’edizione sono tutti memorabili: quelli di Inghilterra e Germania Ovest con l’incrocio magico degli arbitri (Kreitlein per Inghilterra-Argentina, Finney per Germania Ovest-Uruguay), quello del Portogallo con la rimonta alla Corea del Nord dopo essere andato sotto di tre gol e quello dell’Ungheria, contro l’Urss che ai tempi significa qualcosa in più di un’avversaria. Senza raggiungere le vette di agonismo della famosa partita di pallanuoto di Melbourne 1956 un incontro tesissimo, sbloccato da un errore di Gelei, che si lascia sfuggire dalle mani un pallone innocuo che Cislenko è rapido nello sbattere in rete. Solite trame ungheresi, ma con un Albert meno ispirato (e più picchiato) del solito e raddoppio sovietico all’inizio del secondo tempo. Ma sfruttando un rimpallo poco dopo è il solito Bene, al quarto gol in quattro partite, a ridare speranze all’Ungheria. Assedio, ma davvero assedio, finale, con un gol sbagliato a porta vuota da Rakosi e una parata enorme di Jascin su punizione di Sipos. La storia mondiale di Bene finisce qui, fra gli applausi del Roker Park di Sunderland, ma non finisce qui la sua carriera, quasi tutta nell’amatissimo Ujpest Dozsa, con cui vince otto campionati nazionali e segna 341 gol, compresi quelli nelle coppe europee (fra i quali uno al Napoli, nella Coppa Coppe 1962-63, e uno alla Juventus nei quarti di finale della Coppa Campioni 1972-73). Fino al 1978, quando a 34 anni passa al Volan (Budapest), per poi andare raccogliere qualche soldo in Finlandia e chiudere in tono minore in patria nel 1985. Da allenatore ovviamente Ujpest, oltre che l’Under 21 ungherese (da vice). Nel febbraio del 2006 la morte prematura, anche se nessuna morte arriva al momento giusto. Nella generazione dei fenomeni, sotto al livello Puskas-Bozsik-Hidegkuti, avrebbe potuto starci benissimo.

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