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La scelta, il sogno di una morte da vivi
Paolo Morati 19/02/2015
Basta avere vicino un gatto per sapere che (e chi) si sta per morire? Quella di Oscar The Cat è una delle tante storie raccontate in La scelta (Sperling&Kupfer, 2015, sottotitolo: Perché è importante decidere come vorremmo morire), saggio di Giuseppe Remuzzi sul rapporto tra malattia e medicina, dove viene aperto un dibattito difficile o, perlomeno, vengono poste in primo piano diverse questioni relative a fino dove le cure debbano effettivamente arrivare e come e per quanto essere somministrate per non trasformarsi nel cosiddetto accanimento. Partendo anche da diversi dati, tra i quali il fatto che in Italia il budget sanitario oggi viene fino al 30% destinato agli ultimi sei mesi di vita di chi è molto malato o anziano e che finisce anche per morire disperato, tra terapie spesso a loro volta causa di altri gravi disagi (“dopo una certa età risolvere un problema vuol dire quasi sempre farne saltar fuori un altro, spesso più grave”), anziché sereno vicino ai suoi familiari e nel proprio ambiente. Remuzzi, in breve, sostiene che le decisioni di fine vita non si possano regolamentare per legge, bensì essere dettate da elementi quali sensibilità e buon senso, ritenendo inoltre che un medico debba saper sospendere le cure quando queste risultano inutili: “Di qualcosa si deve pur morire, se di volta in volta chiudiamo ogni possibile via d’uscita avremo sempre più tumori e sempre più ammalati di Alzheimer. Chi vuole prolungare l’agonia della gente a tutti i costi parla di dignità della vita. È un vecchio trucco retorico”.
Tra diversi episodi di vita vissuta e reale la domanda è per chi – al di là dei comprensibili affetti – si tengono in vita artificialmente quelle persone che sono prive di prospettive di riprendersi, e se invece non sarebbe più giusto lasciare spazio in ospedale a chi effettivamente può aver bisogno di cure maggiormente necessarie. Remuzzi affronta quindi il tema dei tumori: “Nell’uomo c’è ancora molta strada da fare, ma è probabile che nel giro di qualche anno si riesca a trasformare il cancro da una malattia mortale a una malattia cronica, come il diabete e l’ipertensione per esempio, con cui, grazie alle nuove medicine, si potrà convivere”, in uno scenario dove la cura migliore è la prevenzione, a partire dalla dieta con al centro frutta e verdura. Un altro punto importante trattato in La scelta è poi quello del rapporto tra medico e paziente, e del dialogo necessario: “Non ci può essere buona cura senza che ammalato e medico stabiliscano fra loro un rapporto di fiducia reciproca. E conoscere la verità è la premessa indispensabile di questo patto”.
Particolarmente a cuore del medico e ricercatore italiano sta poi il tema dei trapianti, qualcosa in grado di ridare la possibilità di vita a chi altrimenti la perderebbe e che subisce ancora una certa resistenza, laddove – questo il pensiero – dovrebbe essere un dovere di ciascuno far sì che i propri organi possano sopravvivere nel corpo di qualcun altro che ne ha bisogno. E ancora in La scelta si parla di spiritualità e salute, di tutte quelle motivazioni che negli ospedali oggi vengono purtroppo a mancare, del tempo indispensabile da trascorrere con gli ammalati, delle differenze tra adulti e bambini nel vivere la propria malattia, dell’uso degli oppiacei per lenire i dolori (“in generale serve dieci volte meno morfina per prevenire il dolore che per farlo sparire una volta che c’è”) e dell’importantissimo ruolo degli infermieri che per Remuzzi sono protagonisti, almeno quanto il medico, delle vittorie raggiunte.
E infine, si ritorna all’importanza del garantire la cosiddetta “dignità di morire”, vero nodo cruciale del libro (da leggere per intero per coglierne il pensiero completo), e della formazione di chi poi dovrà pronunciare il Giuramento di Ippocrate ed effettuare la scelta. Evidenziando come l’esame di ammissione a Medicina dovrebbe essere fatto in modo diverso, con un colloquio con i candidati per capire quelle che sono le loro reali attitudini e motivazioni, insomma ammettere solo chi è adatto a percorrere una strada così importante. Come avviene del resto in altri paesi: “È uno sbaglio piuttosto grave a cui si dovrebbe porre rimedio”, scrive Remuzzi. “Fare il dottore è un po’ come fare il cuoco o guidare l’aereo, bisogna essere portati: chi è troppo introverso o troppo scontroso o troppo facile a seccarsi è bene che non ci provi nemmeno. E anche chi non è disponibile a studiare tutta la vita. Insomma, certi non vanno bene anche se sanno qual è l’origine della tragedia greca”. E mentre la domanda definitiva è che cosa sia la fine naturale della vita, noi intanto speriamo che almeno i gatti restino al nostro fianco, fino al suo arrivo.