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La risposta di Gianni Mura

Stefano Olivari 19/04/2020

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Gianni Mura sosteneva che i coccodrilli non fossero un ricordo del defunto ma soprattutto un pretesto per l’autocelebrazione dell’autore. Per questo li scriveva malvolentieri, anche se ne ha fatti di bellissimi: il suo su Gianni Brera è del tutto degno di quello celeberrimo di Brera su Meazza.

Nel nostro piccolo la pensiamo esattamente come lui ed è per questo che proponiamo un ricordo personale, quindi scritto senza umiltà in prima persona singolare, a quasi un mese dalla sua morte. Il coccodrillo del trigesimo, se vogliamo. Un ricordo mentre abbiamo a fianco del computer il libro Il mondo di Gianni Mura, comprato l’altro giorno insieme a Repubblica: raccolta di articoli, interviste e rubriche che siamo convinti di avere già letto ma che sarà interessante ripassare.

Inizio del 1994, dopo vari anni fra radio locali, giornali localissimi e lavori anche seri (sono stato ad un passo dal rimanere nei Carabinieri, è mancata solo la firma, e prima di fare l’impiegato part time ho anche venduto decoder di Telepiù) per finanziare il sogno, mi rendo conto che i quotidiani sono pochi, quelli seri pochissimi. Sono convinto che senza essere ‘figlio di’ non avrò mai una chance, non dico uno stipendio, nel giornalismo.

Parentesi: non c’è piano B, ritengo che l’unico vero giornalismo sia quello dei quotidiani e in diversi angoli della testa il pensiero arriverà al 2020. Comunque a 26 anni e con una laurea nell’Italia di allora si trova lavoro con facilità, basta non essere schizzinosi. Certo non in un quotidiano, ma la vita è fatta di compromessi e avrò il tempo di scoprirlo.

Nessun direttore o caporedattore ha mai risposto alle mie lettere corredate di articoli su qualsiasi sport possibile, fosse anche solo per dire ‘Lascia perdere’. Prima di trasformarmi in impiegato al 100%, in una delle tre banche che mi hanno proposto un ‘percorso’ (qualsiasi cosa voglia dire), decido di fare l’ultimo tentativo, apparentemente senza speranza: scrivere una lettera al mio giornalista preferito, pur sapendo che il suo potere decisionale all’interno di un giornale è inversamente proporzionale alla sua fama. Scrivo a Gianni Mura, solo a lui. Una lettera, quattro fogli scritti a mano, in cui spiego le mie passioni e dico di ritenere un fallimento qualsiasi lavoro (anche più pagato, e lo sono molti, anche più prestigioso, e lo sono quasi tutti) diverso dal giornalista sportivo.

Martedì 22 febbraio 1994, primo pomeriggio, un’ora dopo la vittoria degli azzurri nel fondo nella staffetta ai Giochi di Lillehammer, con il sorpasso di Fauner su Daehlie negli ultimi metri. È passato qualche giorno dall’invio della lettera presso la redazione di Repubblica a Milano, all’epoca in via De Alessandri. Suona il telefono di casa, cioè l’unico mio telefono: “Sono Mura”.

Mi scapicollo a Repubblica, dove non mi sembra vero che Mura dedichi un’ora del suo tempo a uno sconosciuto. Mi dice che secondo lui il giornalismo sportivo ha ancora senso e che i più motivati devono comunque provarci: magari lo ha colpito il mio tono melodrammatico. Vorrei fargli i complimenti per un pezzo su Abdujaparov ma per fortuna mi fermo al confine del leccaculismo. Ricordo ogni parola di quell’ora, ma venendo alle cose concrete Mura mi dice: “Qui a Repubblica non c’è davvero spazio, però sta nascendo questo nuovo giornale di Montanelli, la Voce. È la situazione giusta per proporsi. Responsabile dello sport è Gigi Garanzini, ti do il suo numero e poi dipende da te e da lui”.

Sceso in strada chiamo Garanzini da una cabina telefonica a gettoni e lui è cortese: mi dice che stanno valutando persone fuori dal giro e che in ogni caso mi telefonerà per dirmi quando andare alla Voce a provare. Non c’è alcun tipo di prospettiva finanziaria e la Voce non sembra avere grande futuro (si propone come secondo giornale in un paese in cui la gente non compra nemmeno il primo), quindi i miei concorrenti non saranno giornalisti affermati o sconosciuti con raccomandazione, ma disperati come me. Forse non ci sono concorrenti, ma non ho il coraggio di chiederlo a Garanzini. Raggiungo la Uno 45 S e trovo una multa.

Passa quasi un mese e pochi giorni prima dell’uscita della Voce mi chiama Garanzini. Arrivo in via Dante con la macchina da scrivere e mi viene assegnato come pezzo di prova la presentazione di Foggia-Roma: 3.000 battute di livello tremendo sul rischio retrocessione per Mazzone, proprio di fronte al futuro allenatore della Lazio. Altre due cose sul caso Haessler e sull’importanza di Cappioli, ed eccoci pronti.

Quelle righe le ho scritte in un attimo e poi, visto che il provino è avvenuto così tardi, forse prima di me non si sono presentati premi Pulitzer. Sono preso alla Voce, senza contratto e senza promesse, ma contro ogni aspettativa dopo qualche settimana di lavoro vengo pagato, a livelli oggi inimmaginabili: in un mese, sommando tutti gli articoli, viaggio sui 2 milioni di lire lordi. Di sicuro per 25 anni fra alterne fortune ho vissuto di questo, in gran parte grazie al web e ai libri ma senza dimenticare il sogno iniziale. Ringrazio Mura subito al telefono e poi la prima volta che lo vedo allo stadio, sento che lui è imbarazzato e lo sono anche io. Perché non ci sono parole. Ancora sono emozionato per la gratuità di quella telefonata e di quel tempo.

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