La regina degli scacchi, ma solo nella fiction

17 Dicembre 2020 di Stefano Olivari

La regina degli scacchi, appena finita di vedere su Netflix, è una delle serie televisive di maggior successo degli ultimi tempi e non è difficile capire perché: la storia superclassica della protagonista (la bambina orfana che si fa largo nel mondo), gli Stati Uniti degli anni Sessanta, i vestiti, una spolverata di Guerra Fredda che non fa mai male, oltre ovviamente ad un mondo affascinante e durissimo come quello degli scacchi, dove l’intelligenza confina con la follia: Bobby Fischer l’esempio più luminoso. Un mondo che ha mantenuto il suo perché anche nell’era dell’intelligenza artificiale e dei campioni che non sono più quasi soltanto russi, dall’indiano Anand al norvegese Carlsen.

La regina degli scacchi, tratta da un romanzo di Walter Tevis (autore anche di Lo spaccone e Il colore dei soldi, che per noi ovviamente significano Paul Newman e Tom Cruise) che ebbe un buon successo negli anni Ottanta, Tutto ruota intorno a Beth Harmon, una strepitosa Anya Taylor-Joy, ragazzina prodigio cresciuta in orfanotrofio, dove impara a giocare a scacchi dall’uomo delle pulizie, e che partendo da tornei nel suo Kentucky diventa la scacchista statunitense più forte imponendosi in un mondo quasi unicamente maschile. Fiction purissima, perché non è mai esistita una campionessa americana di tale valore e soprattutto, bisogna dirlo, non è mai esistita una grande scacchista donna nonostante la forza fisica c’entri pochissimo. Il passo verso conclusioni politicamente scorrette, che potrebbero anche essere proposte in chiave razziale, è cortissimo.

Nella fiction vengono citati tanti grandi maestri realmente esistiti, da Capablanca ad Alechin, ed anche tanti termini scacchistici (Queen’s Gambit, gambetto di donna, è il titolo originale ma anche il nome di un’apertura, oltre che un gioco di parole), ma di mosse vere e proprie se ne vedono poche. Ed è un peccato perché nella sceneggiatura, curatissima, sono state usate partite famose, anche se non è che tocchi a Netflix fare divulgazione scacchistica. Ci ha colpito che molti appassionati scacchisti parlino bene di La regina degli scacchi, visto che in situazioni analoghe l’indignazione della parrocchietta scatta automatica.

Di Beth piacciono l’indipendenza, il suo rendersi conto della miseria dell’universo maschile, la sua consapevole dipendenza da psicofarmaci e alcol, il suo individualismo. Un po’ telefonata e stereotipata la sfida al grande maestro sovietico Borgov, quasi una citazione di Rocky IV con il popolo russo ad inneggiare al campione americano, ma questo vogliamo noi pancia del paese e questo ci hanno dato. Comunque una serie, che non sappiamo se sarà una serie (nel caso bisognerebbe andare oltre il romanzo da cui è tratta), molto bella, una delle poche che possa essere guardata insieme da maschi e femmine senza che qualcuno sbuffi.

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