Cinema
La produzione di Argo
Stefano Olivari 20/11/2012
Argo è il migliore film medio visto negli ultimi anni, lo diciamo con cognizione di causa visto che raramente guardiamo lungometraggi (siamo cresciuti con la TSI) da festival e che rarissimamente ci buttiamo sulla spazzatura dichiarata con l’illusione di cogliere lo spirito del tempo: in questo senso abbiamo già dato, moltissimo. Film medio, dunque, che non significa mediocre. Presentato all’ultimo festival di Toronto, che nel mercato ‘vero’ ha un’importanza paragonabile a Cannes, da qualche settimana è nei cinema italiani e il fatto che sia stato ‘venduto’ come film di spionaggio e di azione non gli rende giustizia. Il fatto che poi il regista sia Ben Affleck e non un venerato maestro (del genere ‘scopicchiamenti esistenziali con il Maggio francese sullo sfondo’) contribuisce a collocare mediaticamente, almeno in Europa, la pellicola in serie A2. Categorizzazione immeritata, perché si tratta di una grande opera che tiene insieme generi diversi (non stonano nemmeno gli insert di commedia) con un equilibrio raro e la mano di chi ha studiato cinema oltre ad averlo praticato molto come attore. La storia è una storia vera, anzi verissima: quella dei sei dipendenti dell’ambasciata americana a Teheran che nel 1979 non furono catturati dai miliziani di Khomeini e che si rifugiarono nella casa dell’ambasciatore canadese. Il problema era tirarli fuori dall’Iran senza azioni militari, così la CIA si inventò una messinscena pazzesca mettendo in piedi un finto film (una porcata fantascientifica chiamata Argo, citazione dei B-Movie anni Settanta: solo che lì si era davvero negli anni Settanta…) e una finta produzione, per far passare i sei funzionari come dipendenti canadesi di questa casa cinematografica (realmente esistente, con il premio Oscar per il trucco John Chambers a reggere il gioco) giunti in Iran per sopralluoghi in terre che ben si adattavano a lotte di alieni. Il protagonista è l’agente Tony Mendez (nome vero), interpretato da un Affleck praticamente uguale ad Andrea Meneghin e molto simile a Gianluca Basile (guardiamo troppa pallacanestro), che forzando un po’ la mano ai suoi superiori fa sì che Jimmy Carter dia il via libera all’operazione. Non sveliamo il finale, ben noto a chi nel 1979 era già in pista, ma diciamo che il regista tira fuori tutto l’arsenale degli espedienti alza-tensione (infatti le uniche parti di fantasia del film sono queste) e che, facilitato dalla storia, riesce nell’impresa di girare un grandissimo film senza far sparare un solo colpo a quelli che come spettatori non iraniani abbiamo eletto come ‘i nostri’. Un po’ da Wikipedia e con un errore gigante (la modalità con cui lo Scià prese il potere assoluto) l’introduzione storica, ma molto curata la ricostruzione come dimostra il confronto finale fra le foto d’epoca e le scene del film. Una pagina di storia ai confini della realtà, meno conosciuta della vicenda dei 52 ostaggi e del’operazione militare che nell’aprile del 1980 fu tentata per liberarli (con esiti disastrosi), prima che venissero rilasciati, il giorno dell’insediamento di Reagan. Conclusione da vedere con occhi medi, per arrivare a conclusioni medie. Estremo invece il dibattito che il film ha generato negli Stati Uniti, più sul versante politico che su quello cinematografico.