La pelle degli introversi

17 Febbraio 2014 di Paolo Morati

Quiet

Vi è mai capitato di trovarvi in una riunione senza pronunciare parola, ascoltando quello che gli altri stavano dicendo e fornendo solo un parere finale e quando richiesto? Oppure di entrare in casa di altri, trovarvi di fronte una serie di persone e fare fatica a salutare? O di preferire una compagnia ristretta piuttosto che ampia? Benvenuti nella famiglia degli introversi. Una categoria che nella società dove la forma conta più della sostanza, dove la quantità (di parole e gesti) deve necessariamente superare la qualità (del pensiero), può essere considerata poco efficace e utile. Nel saggio Quiet (il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare, Bompiani 2012), scritto da Susan Cain viene sfatato il mito del chiacchierone, dell’uomo di azione, citando casi di personaggi famosi così come di sconosciuti per affermare come chi si ferma a riflettere ed elaborare in modo silenzioso può ritagliarsi un ruolo importante e decisivo nella crescita di un’attività. Che sia sociale, aziendale o semplicemente familiare.

L’opera della Cain, lei stessa confessa introversa, fa emergere in un’analisi piuttosto ampia le figure di chi spesso si trova per sua indole sulla difensiva, di chi è costretto a mostrarsi esuberante contro natura per guadagnare i favori del mondo circostante, e di chi deve iper-controllare la propria sensibilità verso gli stimoli esterni. Con l’obiettivo finale di trasformare in punti di forza quello che agli occhi degli altri sono invece delle debolezze, per non subire la prepotenza di chi fa rumore e sgomita. Da Steve Wozniak a Eleanor Roosevelt passando per Al Gore sono diversi gli esempi portati per dimostrare che c’è del valore anche in chi non ha la tendenza ad apparire, che sta dietro le quinte forte di una elevata capacità analitica, tendendo all’autocontrollo e all’empatia, a immedesimarsi negli altri e ad avere un maggiore senso di colpa. Il tutto legato anche all’ansia superiore che sale e si trasmette verso l’esterno attraverso una pelle più sottile e meno impermeabile agli stimoli, laddove la scorza di chi è freddo non lascia invece trasparire emozione. Persone che alla fine riescono a vincere quella paura di mostrarsi in pubblico trasmettendo qualcosa con passione anche se vorrebbero scappare, ritrovandosi alla fine estenuati.

Quiet è un libro consolante e rivelatore per chi è introverso, ritrovando situazioni vissute in prima persona e delineando il giusto stimolo a trarne le forze per tirare fuori il meglio di sé. Non sappiamo gli estroversi che lo leggeranno come potrebbero reagire alle osservazioni che vengono fatte a un certo modo di comportarsi così come di formare quelle che saranno le classi dirigenti del domani. In realtà tra cinciallegre, studi e uomini il messaggio che si ricava è di non tradire quello ‘che’ siamo ma di lavorare per poter trasmettere ‘chi’ siamo superando ciò che all’esterno può sembrare pura remissione, tenendo conto che in ogni caso a seconda delle situazioni ciascuno ha il suo ruolo da giocare, per essere utile al raggiungimento di uno scopo comune. Perché a un introverso può far piacere (o servire) stare insieme a un estroverso, e viceversa. Ma sapendo anche che tra cervello antico (emotivo e istintivo) e cervello nuovo (razionale), essere esuberante e aggressivo non è detto che faccia rima con vincente, tanto più se quella che viene definita sensibilità alla ricompensa supera il limite di guardia, e ci si affida nel momento della scelta all’euforia dell’attimo.

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