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Siamo tutti giurati
Paolo Morati 08/01/2015
Per comprendere appieno il significato e l’attualità di un film come La parola ai giurati – rivisto di recente in televisione – bisogna partire dal più crudo titolo originale: 12 Angry Men, 12 Uomini Rabbiosi. Uscito nelle sale nel 1957 e diretto da Sidney Lumet, in poco più di novanta minuti, il film mette in piazza dodici diverse caratterizzazioni umane a comporre una giuria incaricata di decidere il destino di un diciottenne accusato di parricidio a mezzo pugnale. Un verdetto che se nei primi minuti sembrerebbe scontato si fa sempre più contrastato fino a rivoltarsi completamente, sulla scia dell’opposizione iniziale del giurato numero 8 interpretato da un appassionato Henry Fonda, incerto sulla colpevolezza del giovane. Ma è appunto soprattutto la rabbia che entra in gioco in una sceneggiatura scritta da Reginald Rose che, seppure inverosimile in un paio di punti, fa riflettere non solo sul tema del pregiudizio, ma anche (o soprattutto) su quello del disinteresse per il destino umano e per il ruolo che si è chiamati a rivestire.
In La parola ai giurati c’è la rabbia stupida del giurato numero 7, frettoloso e superficiale, che pensa soltanto a chiudere rapidamente la faccenda per poter andare ad assistere a una partita di baseball. C’è la rabbia razzista del giurato numero 10, avverso sostanzialmente a chi non è socialmente inserito e non può che essere colpevole. E c’è la rabbia personale del giurato numero 3 (uno straordinario Lee J. Cobb, con quel volto e dito accusatore), ferito dal figlio e dai suoi atteggiamenti, rivisto nell’imputato che quindi va condannato senza se e senza ma. Attorno a questi tre character particolarmente rumorosi, ruotano altre figure più riflessive, fredde o mutevoli, disattente o sensibili. E fin dalla prima votazione, palese, ecco che emerge già il primo fenomeno così comune quando si tratta di dover prendere una decisione in un gruppo: salgono prima poche mani e poi piano piano altre si allineano alla maggioranza che improvvisamente si compone, come i bambini incerti che devono rispondere a una domanda della maestra, poi seguendo l’onda. Tranne una che rimane abbassata.
Nello scorrere del film, con tecniche di ripresa sempre più definite, primi piani e giochi di particolari (straordinaria la goccia di sudore sulla fronte del giurato numero 4 – interpretato da un eccellente E.G. Marshall – mentre si appresta a cambiare opinione e a perdere la sua sicurezza) la pellicola mette in luce chi parla della propria attività lavorativa o si confronta a tris, senza curarsi del fatto che in gioco c’è una vita da mandare alla sedia elettrica, evidenzia il mito dei quartieri alti e di chi elenca i precedenti del giovane e le sue origini nei bassifondi, e il provenire da una famiglia distrutta, con la tradizionale e sempre attuale riflessione su ‘i ragazzi del giorno d’oggi’.
Girato in bianco e nero proprio mentre il colore era in pieno boom, La parola ai giurati è il primo lungometraggio di Lumet, con uno script di derivazione televisiva, e ambientato per buona parte all’interno di una sola stanza. È una pellicola che trasmette un ambiente umido e caldo, con un ventilatore apparentemente rotto, segnato dal sudore che macchia le camicie e da chi resiste stoicamente fino alla fine con la cravatta ben annodata. Guardandola, si sente arrivare dallo schermo l’odore di fumo e di aria viziata, con finestre attraverso le quali sembra non passare alcun refrigerio, e un temporale serale ad accompagnare il drammatico finale. In definitiva La parola ai giurati è una lezione sulla fretta del giudizio sugli altri piuttosto che su sé stessi, sul dominio e i rischi della rabbia, nonché un grande film, impensabile da concepire per i ritmi frenetici del cinema odierno. Perfetto, o quasi.