La nazione canturina
20 Gennaio 2012
di Fabrizio Provera
di Fabrizio Provera
Pensieri dopo Barcellona-Bennet, sfida fra due realtà distanti sotto ogni profilo ma unite da un sentimento. Che nel basket di oggi ha più senso che in quello di ieri…
“Som un, som una nació” (“Siamo uno, siamo una Nazione”).
A Barcellona si parla catalano. E se è vero che la lingua forma l’identità di un popolo allora è altrettanto vero che dalle tradizioni, dalla storia e dalla cultura si definisce una Nazione. Ma non solo: da lì viene anche l’attuale grandezza del Barcellona di Navarro, Huertas, Eidson e Lorbek, che per tre quarti abbondanti ha tremato al cospetto di Cantucky.
La storia della comunità autonoma di Catalogna è una storia peculiare e merita di essere scritta ed ascoltata una e più volte. Perché più che di una regione della Spagna, le sue caratteristiche sono quelle di una vera e propria Nazione. Perché l’indipendenza in quanto Paese a sé stante non è ancora riconosciuta in quanto tale. Né dalla monarchia spagnola, né dalla comunità internazionale. Ecco perché la forza cestistica del Barcellona trae ispirazione da qualcosa di importante, che trascende il valore dei singoli giocatori.
Abbiamo parlato di Barcellona ma è come se stessimo parlando della Bennet, che ancora una volta – sospinta mentalmente da Andrea Trinchieri – ha alzato l’asticella sino al suo limite. Col principe Basile, il conte di Belgrado Vlado Micov che ha dispensato perle di sapienza cestistica, Brunner capace di reggere all’impatto coi piani alti dell’Eurolega, Shermadini che mantiene un rapporto elevatissimo tra minuti giocati e rendimento complessivo. Tante prestazioni individuali sublimate in una prestazione di squadra dall’intensità rara, esattamente come nel girone di qualificazione.
Ma il dato agonistico, come sempre quando si parla di nobiltà cestistica, è secondario rispetto al significato della sfida di ieri. Se prima che l’Italia diventasse una Nazione si affrontarono in terra di Sicilia la nobiltà latina e la nobiltà catalana, in un’interminabile guerra intestina dove la posta in gioco era la supremazia di una casata sulle altre, allora il girone all’apparenza impossibile capitato in sorte alla Bennet è invece un toccasana. Se sconfitta dev’essere, che sia una sconfitta come quella di ieri. Perché il viaggio conta più della meta (parole di Trinchieri, non esattamente il primo ad esprimere questo concetto: il che non significa che non sia valido…), ma dopo una prestazione simile Cantucky è mentalmente pronta ad affrontare le altre due corazzate dall’intatta nobiltà cestistica: mercoledì prossimo, a Desio, arriva lo Zalgiris che rievoca lo spirito del Principe del Baltico, Arvidas Sabonis, che accostò la sua grandezza all’ormai imminente dissoluzione dell’impero sovietico ed est europeo.
Poi sarebbe toccato a Jugoplastika, Cibona e Partizan proiettare la pallacanestro europea nell’epoca della Finis Historiae di Francis Fukuyama (che abbaglio..). Il 2 febbraio ritornerà invece il Maccabi, capace di ridestare lo spirito degli eroi immortali degli anni Ottanta; la finale di Colonia, Marzorati, Berkovitz, Flowers, Cantù sulla vetta d’Europa. Trent’anni dopo la storia si ripete. Non finirà alzando la coppa, perché i tempi sono molto cambiati, ma di sicuro dando orgoglio ad un popolo. Non ci stancheremo mai di dire che a Cantù, come a Barcellona (ma anche a Milano, Roma, Montegranaro) il basket di professionistico ha ragione di esistere solo se legato a un’idea che prescinda dai trofei e da un’idea di spettacolo copiata malamente. Perchè per vedere quelli bravi, ma veramente bravi, basta accendere il televisore.
Fabrizio B. Provera, 20 gennaio 2012
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