Bisogno di Wunderkammer (intervista a Roberto Togni)

11 Luglio 2013 di Paolo Morati

La conservazione della memoria storica, culturale e sociale dei musei è fondamentale nella vita dei singoli individui e della collettività. Con questa idea in mente Roberto Togni, Professore di ruolo di Museografia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Trento dal 1986 al 2008, ha lavorato al volume La memoria dei musei nella vita degli uomini – Editore UCT Trento, presentato di recente. Nel contempo ha pubblicato un libro gratuito, scaricabile da questo link, dedicato al tema delle cosiddette Wunderkammer. Lo abbiamo intervistato, tra meraviglie, oggetti e storia.

Ha insegnato per oltre vent’anni museografia. Ci può spiegare di cosa si tratta e quali sono gli argomenti che affronta?
Nella museografia e nella museologia si considerano la storia, le tipologie diverse di collezioni e di musei, la loro attività di conservazione, scientifica e didattica. Le tematiche sono assai varie: arte, archeologia, scienze naturali, tecnica, etnografia, agricoltura, industria, design, automobili, aerei, navi, orologi, robot, ecomusei, parchi etnografici, ecc. Non più soltanto “antichità ed arte”, ma ogni testimonianza dell’operosità umana.

Con il volume La memoria dei musei nella vita degli uomini si è prefissato di dare valore alla cosiddetta memoria storica, culturale e sociale di questi luoghi. Come è stato strutturato tale progetto e qual è la situazione odierna dei musei italiani?

La strutturazione del progetto La memoria dei musei è rappresentata dalle competenze dei vari specialisti che sono stati invitati a portare la loro testimonianza, il loro punto di vista sulla memoria dei musei. Sulla situazione odierna dei musei italiani, il Paese è notoriamente ricco di importantissime collezioni e musei, ma è latitante nella loro gestione: carenza di personale, di finanziamenti, ma anche di consapevolezze e di aggiornamenti professionali e di politiche culturali adeguate ai tempi. Alcune fondazioni culturali private svolgono una azione di supplenza (ad esempio il FAI). Mentre molti musei di dimensione minore e capillare sono retti dal volontariato.

Quando si parla di musei nella maggior parte dei casi si fa riferimento a quelli ‘grandi’ dove vengono esposte operare di immenso valore storico e artistico riconosciute a livello mondiale. Eppure esistono anche i piccoli musei, locali, di nicchia…
L’errore del passato, soprattutto in Italia, è stato quello di limitarsi al binomio ‘antichità ed arte’ o poco più. In anni recenti, soprattutto dopo l’industrializzazione massiccia degli anni Sessanta, l’abbandono delle campagne, l’esodo dal Sud al Nord, il boom economico, è nata una sincera esigenza di riscoperta delle radici culturali, delle culture locali. Fenomeno che in Svezia era nato nell’Ottocento quando il paese, da povero e agricolo, si era precocemente industrializzato: da qui la nascita dei primi musei a cielo aperto svedesi o ‘skansen’. In Italia le collezioni e i musei locali o di nicchia nati negli ultimi decenni sono oltre 500, così come risultano censiti nel volume ‘Guida ai musei etnografici italiani’, editore Olschki, Firenze 1997.

Passiamo al concetto di Wunderkammer, al quale ha dedicato un volume liberamente scaricabarile da internet con prefazione di Gillo Dorfles, per capire come è nato e che cosa si intende con questo termine.
Il collezionismo è un fenomeno antico quanto l’umanità. Da sempre l’uomo ha avuto bisogno di cose, le ha raccolte, spesso per fini di sopravvivenza o per motivazioni diverse: per suggestione, per curiosità, per superstizione, per gusto del meraviglioso e del curioso, per religiosità, per avidità, per culto dei morti, per desiderio di possesso, per vanagloria. L’interesse per la rarità, lo strano e il meraviglioso si mantiene costante attraverso i secoli. Il Medioevo accumulò nelle cattedrali, nelle cappelle, nei conventi e nelle collezioni principesche meraviglie, oreficerie, curiosità. Il cristianesimo introdusse oggetti provenienti dalle crociate, reperti archeologici, reliquie, prodotti preziosi di oreficeria, arredi prestigiosi ed altri quali coccodrilli imbalsamati. Il Rinascimento italiano, pur non trascurando l’interesse medievale per le rarità naturali (naturalia) e i prodotti dell’attività umana (artificialia), assegna il primo posto all’arte, riconoscendole dignità di attività speculativa (ars liberalis). Nel Seicento, affermatasi la scienza esatta del metodo matematico di Galileo, le Schatzkarnmern divennero oggetto non più di meraviglia, ma di analisi. La Wunderkammer può essere considerata anche come metafora che attraversa tutti i tempi: è caverna, ricovero, nido, casa, abitacolo, inconscio individuale e collettivo. Essa ha avuto uno specifico valore sperimentale e multi-culturale soprattutto in secoli nei quali arte, scienza e filosofia della natura si confondevano e le raccolte di oggetti collezionati prendevano vari nomi: mirabilia, admiratio, miracula, admiranda. Alcuni studiosi individuano nel surrealismo e in alcune avanguardie del Novecento qualcosa della tradizione della meraviglia, del fantastico.

Come le è venuta l’idea di raccogliere oggetti ‘meravigliosi’ e quando ha cominciato?
La mia “stanza delle meraviglie” è nata a Trento, città in cui ho avuto il piacere di trascorrere ventidue anni consecutivi di insegnamento universitario. La mia dimora privata era molto semplice, ma poteva consentirmi di ospitare qualche collega straniero di passaggio: ad esempio il russo Georgy Meletinski, l’ungherese Lorand Szabo, il cecoslovacco Zdenek Tempir, il romeno Corneliu Bucur ed altri. Potevo pure offrire un brindisi ai conferenzieri che di volta in volta erano invitati al mio corso universitario: Bruno Munari, Gillo Dorfles, Marisa Belli, Maria fede Caproni, Giuliano Mauri, Giovanni Bronzini, Paolo Crivelli, Rossana Bossaglia ed altri. Questi stessi spazi accoglievano seminari ristretti di specializzandi oppure di neo dottori che festeggiavano con me lauree maturate proprio nel lavoro di gruppo. All’interno di questa attività para-universitaria quando mi sono trovato a trattare del collezionismo nelle sue multiformi modalità è nato per caso come un gioco didattico la «finta Wunderkammer», dichiaratamente semiseria, con buona dose di ironia, a scopo eminentemente esemplificativo. Da qui la scelta di cose molto semplici, di oggetti di arte o di artigianato, di ricordi personali, familiari e di viaggio, di pezzi ‘veri’, ‘falsi’ o totalmente ‘inventati’, di kitsch, di curiosità, di meraviglie della natura, di prodotti di design anonimo a confronto con il design firmato.

Può farci qualche esempio?
È il caso della nassa, per la pesca delle aragoste; la polentéra, tripode per arrostire le fette di polenta attorno alla fiamma del camino; la gramula del pan, tagliere trapezoidale del pane con lama a leva (brotgrambel in tedesco); il rastrello da fieno, realizzato senza un sol chiodo. Tutti oggetti messi a confronto con alcune creazioni dei più illustri maestri del design contemporaneo: lo sgabello mezzadro di Castiglioni, “compasso d’oro”; la lampada eclisse di Magistretti; la sedia plia di Giancarlo Piretti. Altri oggetti appartegono alla sfera dell’arte popolare, creativa, dei souvenirs di viaggio. Un tulipano ligneo dal Nordiska Museet di Stoccolma; i vetri dipinti e le uova decorate della Romania. La tipica gondola di plastica munita di lampadina vale come esemplare del cattivo gusto o kitsch. La famosa Citroen 2Cavalli realizzata con la latta della scatola del tonno oltre a testimoniare l’ottimo artigianato senegalese serve a proporre una notizia che ci sta a cuore: che la 2Cavalli come le più importanti vetture della Citroen, DS compresa, sono opera non di un francese, ma di un grande italiano finora poco noto nel nostro paese, Flaminio Bertoni (1904-1964). La scoperta si deve al figlio Leonardo Bertoni che, ospite della Università di Trento e della Wunderkammer, ci ha raccontato come solo in età avanzata e in anni recenti abbia scoperto la grandezza del padre di cui aveva perso le tracce in conseguenza della guerra. Contro la ‘feticizzazione’ la Wunderkammer presenta il copertone della bicicletta di Gino Bartali, falso. Mentre la scarpa della nota ballerina Carla Fracci è vera e vale come ricordo personale di un suo spettacolo. Il Dodecaedro è uno degli oggetti singolari: è scultura realizzata con biglietti delle metropolitana di Parigi da un ingegnoso vecchietto. Tale figura geometrica di dodici facce pentagonali è nota già nella Grecia antica, citata da Platone nel “Timeo”. Qui rappresenta una vera “meraviglia” di cultura inconsapevole e di abilità manuali. La cartella di fibra è pure un oggetto carico di valore affettivo: chi scrive l’ha usata frequentando la prima classe elementare, anno scolastico 1944-1945.

Quale consiglio darebbe a chi vuole avviare un progetto simile, a patto di avere lo spazio necessario ad ospitarlo, e quanto può essere paragonabile al collezionismo tradizionale?
Consiglierei di riservare un po’ di spazio nei nostri ‘appartamenti’ (luoghi appartati) a cose che ci facciano sentire meno soli. Anche cose semplici, apparentemente banali, portatrici di esperienze, di ricordi, di radici familiari, senza cadere nel feticcio. Possono nascere wunderkammer domestiche, realizzate con oggetti di lavoro appartenuti ai propri anziani, foto-ricordo di famiglia, quaderni scolastici, penne a inchiostro, culle, indumenti, cappelli della belle époque. Si tratta di combattere la perversa abitudine dell’usa e getta dei giorni nostri. In fondo basta ricuperare alcune attitudini di certi avi del mondo contadino: nonni che salvavano attrezzi dismessi; nonne addette alla amorevole manutenzione di credenze, mensole e pareti sulle quali disponevano e aggiornavano materiali cartacei e oggetti. Santini, Madonne, diplomi, ricordi di Battesimo, di Prima Comunione, annunci di morte; foto di servizi militari, cartoline di parenti emigrati; souvenir di pellegrinaggi, bottigliette dell’acqua di Lourdes. Il tutto costituiva una sorta di storia di famiglia illustrata, prosecuzione dell’antico culto degli avi dell’età classica. Non importa se gli esiti talora potevano essere bonariamente Kitsch. Siamo ben consapevoli che oggi la situazione è completamente cambiata, che i comportamenti, le dimore private e gli spazi stessi urbani sono diversi e ostacolano queste attitudini. Tuttavia osiamo pensare che esistano ancora profondi bisogni di memoria, di radici, di pausa.

Nel corso della sua carriera ha conosciuto e lavorato con diversi importanti esponenti dell’arte italiana. Tra questi Bruno Munari, il grande designer capace di regalare idee e intuizioni straordinarie. Che ricordo ha di lui e quali sono le eredità più importanti che ha lasciato? Oggi esistono ancora le condizioni per poter sperimentare e liberare la fantasia come aveva fatto lui?
Munari ha proposto ai bambini l’esperienza di far “giocare con l’arte”i, per la prima volta alla Pinacoteca di Brera allora diretta da Franco Russoli. Ma innumerevoli altri stimoli sono contenuti nella sua vastissima bibliografia, sia per i più piccoli, sia per gli adulti. Da essa emerge una pedagogia assolutamente creativa, fantasiosa, liberatoria delle attitudini che ciascuno può sviluppare ed esprimere ascoltando il grande Maestro. Un insegnamento per nulla riconducibile a schemi rigidi come qualcuno vorrebbe; una scuola di libera fantasia e di umile saggezza. La saggezza dell’infanzia.

Un’ultima domanda: ci dia una sua definizione delle parole fantasia, ironia, arte e gusto.

Preferisco non dare mie definizioni, ma ricorrere a citazioni di tre grandi.
«Arte e mercato: Arte è ricerca continua assimilazione delle esperienze passate aggiunta di esperienze nuove nella forma nel contenuto nella materia nella tecnica nei mezzi. Mercato è ripetizione di uno standard vendibile secondo le richieste del cliente, ha l’aspetto esteriore dell’opera d’arte olio tela cornice bronzo imballaggio perfetto vuoto». (Bruno Munari)

«Nessuno ha tante trovate come l’artista: ogni trovata è una piccola invenzione. Il grande inventore a sua volta somiglia all’artista. Anch’egli ha vivace l’ideazione, anch’egli conosce il baleno che risolve in un attimo i problemi lungamente meditati. Tutta la tecnica delle arti non è che una serie di invenzioni e di scoperte, che si giovano della scienza e alla scienza portano giovamento. È bene che l’artista coltivi la filosofia perché essa gli abbrevia la via del pensare e lo informa di ciò che si è pensato prima di lui evitandogli l’errore delle soluzioni semplicistiche. Essa sviluppa il senso critico, senza del quale non si progredisce in arte; chiarisce le tendenze del tempo, solleva sopra le cose contingenti, fa presente l’eterno». (Eva Tea, lezione agli allievi dell’Accademia di Brera durante la guerra, nel 1944).

«Io credo, come ho ripetuto varie volte, che l’estetica come dottrina filosofica è indubbiamente da considerare come minore rispetto alla filosofia teoretica, la logica e altre aspetti della filosofia di tutti i tempi; non a caso i colleghi di etica, di teoretica, di logica, considerano spesso noi estetologi come dei non filosofi, o dei filosofi minori. D’altro canto mi piace ricordare ancora una volta Baumgarten, il filosofo che ha inventato il nome dell’estetica. Ora Baumgarten a metà del Settecento parlava dell’estetica come di una gnoseologia inferiore, cioè di una forma di conoscenza inferiore. Ebbene sì, effettivamente credo che si possa dare atto a Baumgarten che l’estetica rispetto alle branche della filosofia è qualcosa di minore; d’altro canto Baumgarten parlava anche di una cognitio sensitiva, di una conoscenza e, diciamo così, emozionale. Ora mi riallaccio a quello che dicevo altre volte: che non sono solo i nostri concetti, ma sono anche le nostre emozioni a contare, sempre di più ci rendiamo conto che esiste una capacità conoscitiva dell’uomo basata non solo sopra i concetti che elabora, sopra la logica che riallaccia questi vari concetti, ma basata sopra le sue emozioni, sopra le sue esperienze sentimentali, oltre che sensoriali. Allora in questo senso io credo che possiamo ipotizzare un’estetica futura la possibilità di una sopravvivenza soprattutto se si baserà sopra uno studio dell’uomo da un punto di vista antropologico e psicologico, e anche sopra uno studio dei sentimenti che sono spesso alla base della creatività artistica».

(Gillo Dorfles, da La memoria dei musei nella vita degli uomini, Uct, Trento 2013).

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