La leggenda degli ABBA e del quinto degli ABBA

11 Maggio 2015 di Stefano Olivari

Pace all’anima di Rutger Gunnarsson, ottimo bassista con tante collaborazioni eccellenti, morto nei giorni scorsi a Stoccolma a 69 anni. E anche all’anima del giornalismo, che copia notizie di agenzia già di loro mal tradotte, senza controllare non diciamo i credit dei dischi ma nemmeno Wikipedia (onore a un’idea meravigliosa, nemmeno citata da chi la saccheggia per scrivere porcherie che poi definisce ‘saggi’). Il titolo, che non sarà sfuggito ai più, era del genere ‘Morto uno degli ABBA’, oppure ‘La morte del quinto degli Abba’, manco Gunnarsson fosse Stuart Sutcliffe (che dei Beatles fece pienamente parte, prima di mollarli ad Amburgo dove pochi mesi dopo sarebbe morto). Invece ha ‘soltanto’ suonato in alcuni dei dischi degli Abba e nei loro tour, come Maurizio Solieri ha suonato per Vasco, da ottimo strumentista e soprattutto da amico di infanzia di Bjorn Ulvaeus (uno dei due Abba maschi, per intendersi) con cui a inizio anni Sessanta era in un gruppo folk (non le ballate dei vichinghi ma musica schlager, quindi vicinissima a quella degli ABBA) di un certo successo che arrivò fino all’inizio dei Settanta. Benny Andersson era il tastierista di un gruppo rivale e dalla sua unione con Bjorn, più le rispettive compagne, la mora Anni-Frid e la bionda Agnetha (ABBA viene dalle loro iniziali), nacque il gruppo capace di vendere più dischi di tutti nella storia dopo i Beatles (nella classifica dei solisti invece Elvis vince su Michael Jackson), parlando di soli dischi originali: quasi 400 milioni di copie, senza contare il circuito delle cover band che nell’Europa del Nord e dell’Est vede tuttora gli ABBA come i più amati. Gunnarsson ha avuto anche una carriera dopo gli ABBA, suonando per Celine Dion, Elton John e tanti altri. Ma questa notizia semi-falsa (vera purtroppo solo la morte) ci offre il pretesto per ricordare un quartetto che come tutte le cose migliori è durato né troppo né troppo poco, circa 10 anni. Con una storia resa eterna da musical, film, eccetera, ma come gruppo interrotta dalle separazioni nella vita privata. E una lezione per tutto il pop di grande successo internazionale che sarebbe venuto dopo: cantare in inglese anche quando non è la lingua madre. Non per esterofilia, ma per non essere chiusi nel ghetto dell’etnico. Il tutto senza alcuna sudditanza psicologica nei confronti del più nobile, secondo gli ormai scomparsi giornalisti musicali, rock.

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