La lega dei Jeremy Lin

22 Novembre 2013 di Stefano Olivari

Perché in serie A non ci sono più i grandi stranieri di una volta? Prima di tutto perché noi non siamo più quelli di una volta e quindi mitizziamo il passato. In secondo luogo perché Bosman, Cotonou (l’unico motivo razionale per cui uno statunitense ambisca ad essere africano), passaporti e ragazze dell’Est (ma anche del comasco) hanno reso molto vago il concetto di straniero. In terzo luogo perché i campionati europei interessanti si sono triplicati rispetto agli anni Ottanta, oltretutto con 7 franchigie NBA in più. Infine, perché è qui che volevamo arrivare, perché molte squadre NBA (non tutte, ma molte) ‘consigliano’ ai giocatori ai confini del contratto una esperienza in quella D-League che adesso è all’inizio della sua tredicesima edizione con un successo e una visibilità crescenti e anche insperati. Il segreto è semplice: delle 17 squadre della lega ben 14 hanno un rapporto di affiliazione più o meno esclusivo con una franchigia NBA, al punto di essere quasi squadre B. Ultimi, in ordine cronologico, i Sixers, che controllano i Delaware 87ers alla loro prima stagione in D-League. Ma quasi tutti vogliono seguire questa tendenza, che consente di tenere sott’occhio giocatori in cui si crede a metà facendoli giocare in un contesto dove tutti danno tutto pur di arrivare alla NBA. Facile citare Jeremy Lin come storia di successo del passato (Reno Bighorns ma soprattutto Erie BayHawks, da dove partì per New York, la Linsanity e tutto il resto) ma guardando solo alla scorsa stagione sono stati ben 31 i giocatori che dalla D-League sono passati a un contratto NBA: in pratica i roster interi di due franchigie… E sono più di 100 gli attuali giocatori NBA con un passato in NBDL, segno che non sempre si entra dalla porta principale con un contratto garantito. Poi ogni situazione ha le sue specificità: dove c’è rapporto di proprietà diretto e vicinanza geografica (tipo gli Spurs con gli Austin Toros o i Lakers con i Los Angeles D-Fenders), il viavai di giocatori è molto più intenso, in altri casi (tipo i Miami Heat con i Sioux Falls Skyforce) le porte sono un po’ meno girevoli. Di sicuro la vera distinzione è fra i giocatori non scelti al draft, che cercano una vetrina qualsiasi essa sia, e giocatori scelti ma mandati a maturare, come si diceva una volta, tipo Jordan Farmar o Brandon Bass. Certo, LeBron nel South Dakota non lo si vedrà mai. E per vedere un Farmar in Europa bisognerà pagarlo con soldi veri, come del resto hanno fatto a Tel Aviv e Istanbul.

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