La guerra e la pace di Malcolm Andrade

17 Novembre 2019 di Tani Rexho

Malcolm Andrade è una delle poche persone viventi che possano dire di avere combattuto durante la Seconda Guerra Mondiale: pilotava gli Spitfire della Royal Air Force quando ancora non era maggiorenne. Siamo orgogliosi di averlo conosciuto qui in Canada e di avere raccolto la sua testimonianza, per ricordarci che la libertà e la democrazia non sono doni divini e a volte devono essere difese con il sangue e le vite di ragazzi normali. Ma come abbiamo conosciuto questo veterano, uno degli uomini ai quali dobbiamo la nostra vita di adesso?

Il torneo di calcio di Peterbourogh, Ontario, capitava sempre nel fine settimana della Festa del Papà. I nostri ragazzi lo hanno vinto due o tre volte, ma nessuno di noi si ricorda oggi i risultati delle partite, tanto meno i marcatori. E nemmeno il vero nome del torneo. Ci ricordiamo però che prima di ogni partita inaugurale e finale Mike teneva il suo discorso e che tutti i ragazzi erano immobili a silenziosi, come non accadeva in alcun altro prepartita. Un comportamento insolito per adolescenti lì solo per divertirsi e di solito indifferenti alle istruzioni degli allenatori come Mike e noi.

Mike non parlava né del nostro insuperabile 4-1-3-2 né dei schemi degli avversari, che del resto non conoscevamo. Parlava però di quando all’età dei nostri giocatori suo padre combatteva i nazisti. «Tu combatti e muori per il tuo compagno di squadriglia, per il soldato in trincea di fianco a te. Per niente altro!» diceva sempre Malcolm Andrade al figlio Mike. Non è che per queste frasi i ragazzi di Mike si siano poi trasformati nel Barcellona di Guardiola, la speranza era però che comprendessero qualcosa di più importante del calcio.

Intanto proprio grazie a Mike abbiamo potuto parlare con suo padre Malcolm, 92 anni e una vita davvero vissuta. Iniziata però in maniera drammatica, a causa di fatti che negli ultimi anni sta raccontando ai giovani canadesi e adesso anche a noi.

Malcolm, cosa significava per un teenager britannico vivere in guerra ?

Tutto intorno a te parla la lingua della guerra. Famiglia, scuola, amici, giornali. Le quattro bombe esplose sul cortile dell infermeria della scuola, con il mio letto ribaltato dall’esplosione, che poi è la ragione per cui sono ancora vivo, il cibo razionato, i volantini lanciati dagli aerei tedeschi. Ogni volta che ti lamentavi di qualcosa la risposta era sempre la stessa : «È la guerra. Cosa ti aspettavi?»

E a diciassette anni tu decidi di viverla sul fronte. Perché?

Frequentavo una scuola privata. L‘aspirazione di tutti i ragazzi era di arruolarsi. Così quando al secondo anno di liceo, era il 1942, un sergente dell’esercito arrivò alla scuola per il reclutamento mi arruolai senza esitazioni. Come fecero quasi tutti i ragazzi, devo dire. Il criterio principale della selezione fu di tipo scolastico: bisognava avere buoni voti e l’approvazione dei genitori. Durante la scuola facevamo l’addestramento elementare il fine settimana. Poi durante le vacanze estive ci fu l’addestramento vero e proprio.

E ti assegnano subito alla RAF ?

Sì. Era il 1943. Appena finita la scuola.

A nemmeno 18 anni tu ti siedi sul legendario Spitfire ?

Sì. Quattro mesi dopo essere entrato nella RAF. In missione in Olanda. Noi però non eravamo assegnati al combattimento aereo, io ad esempio ero parte del reggimento tattico. Dovevamo proteggere le truppe inglesi e canadesi che si muovevano via terra. Fanteria, treni, carri armati. Gli americani si proteggevano da soli, invece. Eravamo in squadre da tre Spitfire, ci davano l’obbietivo da colpire e le linee del fronte. La nostra missione principale era di disturbare i tedeschi dietro le linee.

Scusa Malcolm, vorrei capire come un diciassettenne arrivi al fronte e piloti subito uno Spitfire, alla prima missione. Con l’obbiettivo, perché questa è la guerra, di uccidere un altro ragazzo dell’esercito nemico. Cosa pensavi di tutto questo?

Guerra. Pensavo che eravamo in guerra e che in guerra devi fare il tuo dovere senza lamentarti. “Non lo sai che siamo in guerra?” era la frase che più volte avevo ascoltato nei quattro anni precedenti. In una simile situazione quasi ogni cosa sembra normale, finché non devi premere il grilletto per la prima volta su un obbietivo vero.

Paura di non tornare dopo il primo volo ?

Non ci puoi pensare. Altrimenti non torni per davvero. Magari prima di salire sul aereo sì, forse. Una volta dentro la cabina di pilotaggio sei solo concentrato sul target della missione. La concentrazione e gli uomini della tua squadriglia sono gli unici tuoi alleati i quei momenti.

La prima volta che hai ucciso?

La ricordo bene. Ritornai alla base e appena sceso dall’aereo vomitai anche le budella. Nessuno mi disse niente. tranne il caposquadriglia che mi prese da parte e mi disse : “Ma cosa cazzo fai? Vedi quelli là?”. Mi indicò gli altri piloti della mia squadriglia. “Quelli contano su di te. Se ti vedo vomitare di nuovo te lo faccio pulire tutto. E se lo fai dentro l’aereo, ancora peggio. Hai una missione da completare». Messaggio ricevuto.

Rimorso dopo?

Rimorsi mai, ma dolore sì. E tanto. Era una missione che andava completata. Punto. Noi piloti eravamo piu fortunati della fanteria, se possiamo parlare di fortuna. Non avevi un contatto diretto con quelli che uccidevi, non li guardavi negli occhi. Ma comunque da molto vicino ho assistito a carneficine, dei nostri e dei loro. Oggi, nel 2019, è terribilmente doloroso pensare a ciò che ho visuto, ma in quei momenti o uccidi o vieni ucciso. Se pensi che stai uccidendo persone, devi anche pensare che stai perdendo persone. Persone a cui sei legato, persone che sono come fratelli. Sono dolori che rimangono sempre anche se è impossibile non scegliere: o noi o loro, non scegliere significa scegliere di essere ucciso. Comunque sono ricordi che fanno male e che rimangono nei tuoi incubi. Per anni ho fatto fatica anche soltanto a dire di essere stato in guerra. Mia moglie ha saputo che avevo combattuto dopo anni che eravamo sposati. E anche i miei figli lo hanno saputo solo quando sono diventati grandi.

È stato cosi terribile parlarne?

Certo, anche se era una testimonianza che andava lasciata. Mi viene in mente un’operazione come se fosse stata ieri. Avevamo attaccato una colonna delle SS, ci avevano ordinato un attacco a sorpresa. Abbiamo sparato su di loro da tutti gli angoli, continuamente. Ricordo perfettamente un tedesco su una moto, probabilmente un corriere, si era separato dalla colonna. C’erano alberi su entrambi i lati della strada e le SS stavano uscendo dai camion per correre nei campi. Ma questo soldato sulla moto si è separato e così gli sono andato dietro con il mio Spitfire, a cui si è aggiunto un altro della squadriglia. Vedevo che si allontanava a 60-70 miglia all’ora, mentre io andavo a 290. Nella mia mente pensavo “Ma dove credi di andare?”. Non ho idea nemmeno oggi se fosse in preda al panico o avesse un messaggio da consegnare”. Semplicemente lo abbiamo mitragliato e fatto a pezzi. È un ricordo terribile e molto presente ancora oggi, a 75 anni di distanza. E poi, come se la carneficina vista dall’alto non bastasse, quando le truppe di terra degli alleati hanno superato quella particolare posizione, ci hanno chiesto se volevamo scendere e vedere il danno che avevamo fatto. «Vi porteremo sul sito, per vedere il successo» . Circa 15 miglia di distanza, e ci portarono là fuori per dare un’occhiata al danno che avevamo fatto e… Terribile quando lo vedi da vicino. L’odore era terribile. L’odore della morte, dei corpi in decomposizione,  di carne bruciata. Non dimentichero mai assolutamente  quell’odore.

La prima volta in cui hai perso un amico?

Dormivamo in due piloti in una tenda. Quella mattina la squadriglia aveva quattro aerei. Torniamo in tre. Da lontano non riesco a leggere il numero degli aerei che sono atterrati. Vado nella mia tenda ed aspetto che l’altro pilota che dormiva con me tornasse, cosi che potessimo andare insieme a Messa. Mezz’ora passa, poi un’ora. Dentro di me lo so che non tornerà, ma ho paura di chiedere alla base chi è il pilota caduto. Finché il capo squadriglia mi dice: “Jim ha comprato la fattoria” (ndr: ‘He bought the farm’ è un’espressione gergale per dire che una persona è morta in combattimento). Tre giorni dopo torno da un volo e trovo nella mia tenda il nuovo arrivato. Ho rifiutato di parlargli per giorni. Ero arrabbiato perché nel letto di fianco a me non c’era più il mio amico, ma sopprattutto non volevo più avere amici. Per non soffrire in caso di loro morte. L’isolamento dai sentimenti era l’unico modo per soffrire meno: credevo fosse un problema solo mio, ma anni dopo parlando con altri veterani ho capito che un po’ tutti erano arrivati alla mia conclusione. Ma ciò non fosse disposto a morire per i miei compagni, anche se non erano amici. Niente è superiore al cameratismo in guerra, ma l’amicizia è un’altra cosa. Certo ricordo con affetto tutte le persone conosciute in quel periodo, sono sempre dentro di me. Era un periodo eccitante e spaventoso, al tempo stesso.

Alla fine quanti dei tuoi ‘Brothers in arms’ non sono tornati a casa ?

Probabilmente la metà. Qualcuno perché per quanto bravo pilota e soldato ha trovato il suo giorno sfortunato. Qualcun altro perché si credeva più intelligente dei tedeschi e non seguiva le istruzioni. Qualcuno perché si credeva invincibile. Ricordo due piloti che erano amici di scuola, ma che non avevano mai volato nella stessa squadriglia. Ad un mese dalla fine della guerra ricevono tutti e due il foglio di congedo. Il giorno della partenza si alzano presto e decidono che per almeno una volta dovevano fare una missione insieme. Partono nella stessa squadriglia. Non sono tornati più.

Francia, Belgio, Olanda, per finire in Germania. Piu di cento missioni. Tanti amici persi. Alla fine ne è valsa la pena di combattere ?

Certo! Quella guerra in particolare sì. Ma solo dopo, anni dopo, capisci anche che i vinti erano gente come noi. Una mia vicina di casa a Burlington. Heidi, è tedesca. L’abbiamo invitata al museo dell’aeronautica di Hamilton, ma si è sempre rifiutata di venire. «Quei mostri neri che volavano sopra le nostre teste e volevano uccidermi», ci diceva ogni volta. Gente che allora era il nemico oggi è il vicino di casa, vale da tutti e due le prospettive.

In mezzo a morti e distruzione ci sono stati anche momenti belli da ricordare?

Tani Rexho e Malcolm Andrade

Sì, ci sono stati. Soprattutto ricordo con piacere il contatto con la gente in Belgio e Olanda. Eravamo ospitati in una casa vicino a Grimbergen, in Belgio. Eravamo quattro piloti, tutti con meno di vent’anni e loro ci trattavano come i loro figli. Erano molto preoccupati per noi. Ed erano molto riconoscenti verso di noi. Noi rubavamo cibo extra dall’esercito per portarlo a loro. Erano incontri con persone del genere che davano un senso a quello che facevamo e ci facevano sentire molto meglio. Dal Belgio siamo passati in Olanda, uno dei posti più commoventi in cui mi sono trovato. Gli olandesi stavano letteralmente morendo di fame. Quando volavamo in Olanda, molto spesso, tornando alla nostra base, che era fondamentalmente un campo nel mezzo della campagna, molte volte, tornavi e vedevi tutti questi bambini e talvolta adulti andare sulle loro biciclette e quando sentivano il rumore dei motori sopra le loro teste ci salutavano. Un semplice gesto umano era commovente. Ricorderò sempre un bambino; mentre atterravo con l’aereo lui si affrettò a salutarmi, ma perso l’equilibrio si scontrò con la bici di fronte a lui e a cadde. Mentre lo oltrepassavo vidi che si era rialzato per continuare a salutare. Queste cose ti arrivano. Dopo la guerra sono tornato là e parlando con gente del posto scoprii che quando vedevano l’emblema circolare della RAF sull’aereo l’unica parola che veniva nella loro mente era libertà. Per loro noi eravamo la libertà. Ecco cosa eravamo.

Riesci a dirmi almeno una cosa curiosa sulla guerra?

Molti di noi potevano far volare uno Spitfire da Dio a 300 miglia l’ora, ma non sapevano guidare un’auto.

Cosa pensavate dei politici di allora, se pensavate qualcosa?

Adoravamo Churchill, senza esitazione. Sapeva parlare al nostro orgoglio, ma anche al cuore.

Una guerra si combatte per il paese o per sé stessi? C’è qualcosa per cui valga la pena di morire?

Si comincia a combattere per il proprio paese, questo è certo. Ma in realtà combatti per quello che sta di fianco a te. Per il tuo compagno di squadriglia o per il soldato nella tua trincea. Tu non pensi al paese in quel momento. Tu muori per il tuo compagno (ndr: si commuove).

Com’è stato il tuo dopoguerra?

I primi anni pieni di incubi notturni. Poi il trasferimento in Canada. Mai più toccato uno Spitfire, anche se sono sempre stato innamorato dell’Aeronautica.

Veniamo alle guerre di oggi. Pensi che ci siano guerre giuste oggi?

No. E non so nemmeno se la nostra guerra fosse giusta. Ma era necessaria. Noi abbiamo combatutto eserciti, oggi combattiamo gente. Chi è il nemico? E trattiamo i veterani in modo vergognoso.

Non esistono guerre democratiche ?

(ndr: non risponde, sorride e scuote la testa).

La democrazia è piu debole dei totalitarismi come capacità di mobilitare le masse ?

Senz’altro. Prima di tutto perché in un regime totalitario non hai altra scelta, la mobilitazione è un obbligo. E poi il carico demagogico è elevatissimo.

Dicevi che non volevi mai parlare di guerra, ma sei uno dei piu attivi veterani canadesi.

Anche perché sono uno dei pochi ancora vivi. Forse l’unico rimasto dalla WWII, a dire il vero. Lo sento come un obbligo, quello di raccontare alle generazioni di oggi perché la nostra generazione ha combatutto. È cosi facile perdere la memoria di cosa sia stata quella guerra. Quando anche l’ultimo di noi se ne sarà andato ci saranno solo i musei. Ma quanti ci vanno? Ecco perché lo sento come un obbligo morale.

Ti sei mai sentito un eroe ?

Oh Dio! Mai. Sono stato uno che ha semplicemente fatto il suo dovere. Come milioni di altri. Niente più.

E invece per noi lo sei. Tu e tutti quelli che non ci sono più. Perché abbiamo paura che se un giorno ce ne fosse il bisogno nessuno di noi avrebbe avuto il coraggio che avete avuto voi. Speriamo di sbagliarci.

Detesto la guerra, come solo un soldato che l’ha vissuta può detestarla. Solo uno che ha visto la sua bruttezza, la sua inutilità, la sua stupidità. (Dwight D. Eisenhower).

Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi

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