Ciclismo

La fucilata di Saronni

Simone Sacco 09/05/2025

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Arriva leggermente in ritardo all’appuntamento e il timore èche salti l’intervista già programmata da alcuni giorni. E invece basta poco perché Beppe Saronni entri subito in sintonia con il mondo circostante e mi segua in un comodo angolino dove cominciamo a discutere di fatica e ciclismo. Di cognomi, vecchi e nuovi, ed imprese epiche. Di entusiasmanti, e mai del tutto sanate, rivalità agonistiche. Di secondi decisivi in cui ti giochi una maglia o una carriera. Se parliamo di celebrità, guadagni, sponsor e professionismo, è molto probabile che i ciclisti degli anni Settanta/Ottanta/Novanta restino le persone più disponibili con cui stabilire un contatto umano (quelli precedenti, purtroppo, non li abbiamo mai conosciuti di persona escluso il mitico Franco Balmamion). Eppure uno come Saronni, nel mio immaginario privato, ha sempre avuto un fascino del tutto particolare. Quello del campione che allo sforzo agonistico sapeva unire il guizzo del brivido e dell’intelligenza. La fantasia dell’ora o mai più. Lo sparo nel buio che, un istante dopo, diventa luce accecante e trionfo scolpito nell’asfalto. Ascoltiamolo.

Beppe Saronni, sessantotto primavere il prossimo settembre e gradito ospite a Pasturana, in provincia di Alessandria. Come è nato questo invito?

Be’, ho avuto il piacere di conoscere direttamente il sindaco di Pasturana e lui mi ha detto: “Beppe, dobbiamo organizzare una serata nel mio comune dove il ciclismo sarà assoluto protagonista”. E quando mi si lancia una proposta del genere, per me è sempre un invito a nozze! (gli si illumina lo sguardo. NdR) Sia per ciò che riguarda la materia attuale del ciclismo, ma soprattutto per quello che si correva ai miei tempi.

Eludendo il mito dei campionissimi Coppi e Girardengo, cosa ti lega emotivamente al territorio novese?

Mi emoziona che queste terre abbiano fatto la storia e che da queste parti il ciclismo lo respiri ancora nell’aria e nei discorsi delle persone. Eppure spostandoci un poco più in là, nell’area pavese di Varzi, è inevitabile che ti citi la figura di Carlo Chiappano (scomparso prematuramente nel 1982, NdR), vale a dire il mio primo direttore sportivo, ma anche la prima persona al mondo ad aver creduto in me. Fu Carlo, d’altronde, che mi fece firmare quel contratto da professionista con la Scic (società ciclistica, attiva fino al 1979, che fece esordire lo stesso Saronni tra i professionisti ad inizio 1977 e lo portò alla vittoria del Giro d’Italia nel giro di un paio d’anni. NdR).

Oltre che un campione, sentendoti parlare, ci si accorge che sei sempre stato un ottimo maestro di dialettica, tant’è che le tue interviste sono sempre intriganti da leggere tra le righe. Chi ti ha dato il talento di esprimerti così bene?

Non so se sia esattamente così, ma intanto ti ringrazio per il bel complimento! In ogni caso non smetterò mai di essere grato ai miei genitori per avermi donato le mie caratteristiche vincenti. E anche per questa mia lingua peperina che – ebbene sì – più di una volta mi ha aiutato ad impormi sul mio grande amico Francesco (Moser. NdR). Sai, quando si correva assieme e veniva il momento delle fatidiche interviste con i media, lui magari era quello più impacciato ad esprimersi su pareri e valutazioni. Mentre io avevo sempre la risposta pronta…

Molti grandi sportivi soffrono il ruolo di leggenda vivente e spesso non gradiscono parlare del loro passato. Un nome su tutti: Gianni Bugno (anche se ultimamente sta migliorando). Tu, invece, sembri nato per rileggere di volta in volta la tua carriera…

Hai completamente ragione. A me piace da matti narrare ciò che ho fatto in sella ad una bici.

Dunque non ti annoi mai a rispondere sempre alle stesse domande sulla fucilata di Goodwood, la rivalità eterna con Moser, la doppietta al Giro d’Italia, 1979 e 1983, la vittoria alla Milano-Sanremo, 1983, eccetera eccetera?

No, affatto. Anche perché – pur sapendo tutte queste vicende praticamente a memoria – l’assoluta verità non la potrò mai sciorinare fino in fondo durante un incontro pubblico.

Dici sul serio?

Be’, potrebbe essere pericoloso per quel che riguarda il mondo del ciclismo in generale… (sorride) E comunque mi sembra che la tua domanda di prima fosse incentrata sul mio entusiasmo relativo al parlare in pubblico. Quello ce l’ho eccome. E ce l’avrò sempre perché notare così tante persone attente e curiose, quando racconto le mie storie, mi rende semplicemente felice.

Riguardo alle faccende che non si possono ancora svelare, non ti hanno mai proposto quelli di Netflix una docuserie incentrata su Moser/Saronni?

Qualcuno in realtà ci avrebbe anche pensato, ma in situazioni del genere bisogna sempre essere in due a dare l’ok. Se manca il consenso da una parte, l’altro non è che può fare granché. (allarga le braccia. NdR) In ogni caso, mai dire mai. Se un giorno si farà, sono certo che vorrebbero fuori delle storie inedite tra me e Francesco. E di conseguenza si rivelerebbe un buon prodotto televisivo.

Prima accennavi al leggendario Carlo Chiappano. Lui scompare il 7 luglio del 1982 e tu ti laurei campione del mondo a Goodwood, in Gran Bretagna il 5 settembre dello stesso anno. Non fanno neanche due mesi dalla sua morte al tuo exploit. Dove hai trovato la forza interiore per reagire ad un lutto del genere?

Ti dico subito che la tragica scomparsa di Carlo è stata una motivazione speciale per vincere quel giorno a Goodwood. Forse la motivazione principale; anzi, leva pure il forse. Gli altri motivi, invece, li posso far risalire a Praga 1981, dove persi il campionato del mondo precedente contro il belga Freddy Maertens, ma anche ai tifosi italiani che mi seguirono quella volta in Inghilterra. E ad Enzo Bearzot…

Che cosa c’entra il Vecio?

Be’, gli azzurri di Bearzot in quell’estate ‘82 avevano appena vinto a Madrid il Campionato del Mondo e io volevo dare all’Italia un’altra soddisfazione di tale portata. E quindi il Mondiale su strada di Goodwood (quello della famosa “fucilata” a trecento metri dall’arrivo. NdR) faceva davvero al caso mio.

Escluso Moser, chi ti ha dato più gatte da pelare in quegli anni? Io ho due nomi in testa: il belga Roger De Vlaeminck e l’italianissimo Roberto Visentini che ti strappò il Giro d’Italia del 1986…

Già. Quei due nomi che hai appena citato sono stati tosti nel levarmi delle vittorie importanti. Il più grande di tutti, per me, è sempre stato Bernard Hinault, ma anche lo stesso Visentini, Baronchelli, LeMond, Fignon eccetera. A quei tempi ce ne facevamo di tutti i colori sulle strade, ma sempre con enorme rispetto tra di noi.

Velocista, più che discreto scalatore, buono a cronometro, sapevi leggere alla grande ogni singola tappa o corsa. Alla luce di queste tue caratteristiche, non ti è mai venuta voglia di battere il pugno sul tavolo e dire a quelli della Gis o della Del Tongo, le tue società ciclistiche più note, “Dai, mandatemi al Tour”?

Eh, questa è una domanda che ogni tanto ricorre sul mio conto. Ed io non posso far altro che risponderti così: il ciclismo italiano degli anni Ottanta era un settore importantissimo del nostro Paese, con tante aziende a livello nazionale che ci facevano da sponsor principale. Aziende che, grazie alle nostre vittorie, volevano farsi notare sul mercato nazionale e fatturare principalmente in Italia.

Chiarissimo.

Ti dirò di più: durante quegli anni molti ciclisti stranieri in rampa di lancio volevano giusto imparare un poco di italiano per venire a correre qui da noi! L’Italia era la terra promessa e gli sponsor avevano spesso l’ultima parola. Ecco perché uno come me preparava la Vuelta per arrivare in forma al Giro, ma poi saltavo regolarmente il Tour de France (tranne che nel 1987, NdR): semplicemente non si poteva fare tutto, accontentare tutti.

Il 1986 è stato l’anno del tuo ultimo grande ballo: secondo posto al Giro d’Italia (a un minuto da Visentini) e bronzo al Mondiale in Colorado vinto da Moreno Argentin. All’epoca non avevi neanche trent’anni. Dimmi la verità: vincere così tanto da giovane e praticamente tutto in quel 1982/’83 (Mondiale, Giro di Lombardia, Milano-Sanremo, Giro d’Italia) ti ha levato un po’ di stimoli nelle stagioni seguenti?

(riflette) Sai, io ho iniziato a correre nel 1977, a diciannove anni, invece che a ventuno come prevedeva il vecchio regolamento di allora. Regolamento, per la cronaca, che ho contribuito a far cambiare. E poi mi sono fatto le mie belle quattordici stagioni da professionista. Dici che ho vinto poco da metà anni Ottanta in poi? Certo, quando conquistavi trentacinque allori in una sola stagione, la volta dopo che scendevi a quindici ecco che sembrava subito un insuccesso… Insomma, diciamo che giornalisti e tifosi li avevo davvero abituati bene! (ridacchia)

Parliamo di ciclismo moderno. Questi atleti odierni sono tutti belli, bravi e famosi, ma forse manca loro un po’ di anima?

Eh, le cose attualmente vanno così perché il mondo cambia, la società globale pure e anche il ciclismo va appresso a queste mutazioni epocali. Nel 2025 manca decisamente il rapporto umano, verace, tra i ciclisti mentre noi eravamo senz’altro più istintivi e naturali. Nonostante ciò, restano quei cinque o sei ragazzi terribili, tra cui Pogacar, Van der Poel, il nostro Ganna, eccetera, in grado di far emozionare i tifosi…

Però. C’è un però, vero?

Il problema è che al giorno d’oggi c’è troppo fairplay. Un buonismo di facciata. Finisce la corsa e tutti si fanno i complimenti a vicenda. “Bravo tu!”, “No guarda, sei stato più bravo tu!” e via dicendo. Poi però, quando vanno a riposarsi sul motorhome, ecco che si tirano gli accidenti! (ride) Per inciso, un mucchio di accidenti che non vengono mai colti dalle telecamere e dai taccuini dei giornalisti. Ecco, questo per me si chiama ciclismo moderno.

(Intervista pubblicata originariamente su ‘Panorama di Novi’ – www.panoramadinovi.it –  del 28 marzo 2025)

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