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Calcio

La forza gentile di Andriy Shevchenko

Simone Sacco 12/05/2021

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Grande, grandissima è la tentazione sfogliando Forza Gentile – La mia vita, il mio calcio, l’autobiografia di Andriy Shevchenko scritta in collaborazione con Alessandro Alciato (autore che ha abbinato i bestseller su Ancelotti e Pirlo a libri più di culto dedicati a Mazzarri o al presidente blucerchiato Massimo Ferrero), di correre subito ad una certa pagina. E quella pagina, ovviamente, è la fatidica 234 dove il bomber ucraino si ritrova a parlare della discussa finale di Istanbul del 25 maggio 2005. Quando il Milan si vide sfuggire una Champions League ormai già in bacheca a causa della tigna di un Liverpool targato Rafa Benitez, capace di rimontare ben tre gol e d’affermarsi poi ai rigori (grazie anche all’errore conclusivo dal dischetto dello stesso Shevchenko). 

Il buon Andriy, in tal caso, se la sbriga velocemente mettendo una pietra tombale sui velenosi gossip dell’epoca che parlarono di champagne stappato al ritorno negli spogliatoi dopo i primi 45 minuti di gioco, con il Diavolo avanti di 3-0 grazie ai gol di Maldini e alla doppietta di Crespo. Per Sheva non ci furono brindisi a ripetizione, festeggiamenti prematuri o affronti alla scaramanzia (che nel calcio è comunque divinità capricciosa). «Fu un intervallo felice, ma non di festa. Ci ripetevamo che non avremmo dovuto mollare, eravamo un gruppo di professionisti esemplari», il suo ipse dixit. Poi, dal 54′ al 60′, con Gerrard/Smicer/Xabi Alonso, andò come andò.

Ovviamente la maledetta Istanbul resta il tarlo epocale, ma anche il punto di svolta del libro e di una carriera fin lì felicissima e agonisticamente feroce. Gli anni nostalgici, ma tosti di Kiev (la vicenda comincia con lo scoppio del reattore di Chernobyl, nell’aprile 1986, quando Sheva ha appena dieci anni e scampa di poco all’incubo delle radiazioni). L’amore per i troppi sport, compreso un flirt serio con l’hockey su ghiaccio («Fosse andata diversamente magari avrei giocato con Ovechkin nei Washington Capitals…») prima di bruciare le tappe nell’adorata Dinamo Kiev. Il rispetto per la fatica, gli allenamenti alla Ivan Drago, i compagni di squadra (compreso il mitico Serhij Rebrov che, prima della partite decisive, si rilassava in ritiro facendo il radioamatore) e la gerarchia post-sovietica in generale. La venerazione al limite del mistico per Valeriy Lobanovskyi («Per rispetto ci rivolgevamo a lui chiamandolo Valeriy Vasylyovych, sempre con l’aggiunta del patronimico») che fu allenatore di Shevchenko dal 1997 al 1999 non facendogli mai abbassare la guardia e sgrezzandolo sui maggiori palcoscenici europei. Questa, indubbiamente, la parte più brillante (e finora poco nota) di Forza Gentile. Pagine preziose.

Una vicenda sportiva, quella di Andriy, spesa tra una Ucraina problematica, malavitosa e alle prese con un’epocale mutazione politica (l’indipendenza dall’URSS raggiunta il giorno di Natale del 1991) e un approdo a Milano, sponda rossonera, spacciato col solito escamotage letterario del “predestinato”. Del giocatore che fin da bambino doveva giocare a San Siro, esattamente in quello stadio e indossando solo quella maglia (quando in realtà la trattativa con la Dinamo fu lunga e dubbiosa, con Braida che rassicurò in extremis un ancora incerto Galliani che, di suo, avrebbe scommesso sull’altra punta, il già citato Rebrov). Una escalation che comprende naturalmente Manchester 2003 e l’affermazione in Champions League sulla Juventus (con tanto di storytelling esistenziale prima del rigore decisivo segnato a Buffon), lo scudetto milanista del 2004 vinto in carrozza sulla Roma (sconfitta sia all’andata che al ritorno) e il Pallone d’Oro arrivato, come ciliegina sulla torta, a dicembre dello stesso anno. Stagioni felici, ma raccontate con l’inevitabile retorica mainstream del campione che non ha sassolini nelle scarpe da togliersi. Anche se, va detto, le parole d’affetto verso i vari Maldini, Costacurta (che gli affittò addirittura casa), Ambrosini e Albertini sembrano attestati sinceri e non semplici PR.   

Eppure, dopo la clamorosa debacle coi Reds, qualcosa muta nel carattere apparentemente imperturbabile di Sheva: aumentano le sue insonnie notturne, esplode lo stress, scricchiola il rapporto con mister Ancelotti (fatale un forfait in vista di una trasferta ad Udine seguito da una comparsata, pochi giorni dopo, con la Nazionale Cantanti), peggiora il fisico logorato da troppe battaglie (e dalle tabelle asfissianti del Colonnello…) e si infittiscono gli inviti di Roman Abramovich (il primo risale addirittura all’autunno 2003) per portarlo in un Chelsea ancora sotto l’egida di Mourinho e famelico di successi internazionali. 

Andriy, ovviamente, accetterà ritrovandosi ancor più ricco in una Premier che però non sentirà mai sua. Infortunato e incapace per la prima volta di dare il suo reale contribuito. Due anni dopo tornerà in modalità low profile al Milan, sempre minato dai problemi all’ernia, giusto per invidiare la classe di Ronaldhino e ammirare l’impegno esemplare di Beckham, uno che gli ha sempre ricordato il suo furore in allenamento. Infine il lungo addio nei luoghi natali, la maglia bianca della Dinamo indossata nuovamente fino al 2012. Per ritrovare la forma fisica e poter partecipare, da capitano, agli Europei organizzati quell’anno proprio tra Ucraina e Polonia. 

Da lì l’addio sereno al pallone (dopo una sconfitta per 1-0 contro l’Inghilterra), ma anche la fine di un bel libro incentrato al 100% sul calciatore Sheva (nessun accenno alle sue attuali 44 partite da CT della nazionale ucraina), scritto tutto sommato di cuore e che, tra rimandi al privato e inizi eroici in un calcio che ormai non esiste più, non rappresenta affatto un’occasione sprecata. Come non fu sprecato, nella finale di Istanbul, quel doppio tiro a pochi metri dalla linea di porta respinto miracolosamente da Dudek al minuto 117. Racconta il diretto interessato: «Un’occasione identica mi capitò una settimana prima a Milanello, durante una normale partitella, su cross al bacio di Serginho. Tirai a colpo sicuro e Abbiati respinse non una, ma ben due volte. Era già tutto scritto in quel presagio. Fu destino». Un destino beffardo, rude, per nulla gentile.      

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