La Disciplina di Garbo

20 Settembre 2016 di Paolo Morati

Garbo

“Pensare è il mio rumore”. Così Garbo cantava nel brano Onda elettrica contenuto nell’album ‘Gialloelettrico’ del 2005. E in effetti di rumore pensando, nel senso positivo, lui in 35 anni di carriera ne ha fatto parecchio. Dagli esordi di inizio anni Ottanta in un’epoca d’oro per la discografia, arrivando fino ai più difficili giorni nostri dove ci si appoggia a piattaforme come Musicraiser, quello di Renato Abate è stato un percorso fatto di ricerca musicale, che ha portato alla realizzazione di album distanti anni luce dalla canzone italiana più tradizionale, in termini di suoni così come di parole, guardando oltre i propri confini. Alla vigilia dell’uscito del doppio CD live Garbo Living 2016 e di quello che ha annunciato come il suo ultimo tour, l’artista ci racconta la sua storia, le evoluzioni e i progetti di uomo indipendente, ancor prima che musicista.

Partiamo dalla scintilla che ti ha portato a fare il musicista…
A quindici anni capii che il piacere per la musica aveva una prevalenza rispetto agli altri interessi, tra l’attività scolastica e quella sportiva (praticavo l’atletica leggera). Ero incuriosito da un determinato genere, da un suono che arrivava non solo dall’Inghilterra ma anche dall’Europa continentale e quindi da Paesi come la Germania, e ritenni di poter creare qualcosa di interessante su tale versante. D’altro canto non amavo molto la musica italiana e i cantautori, percepivo la mancanza di un respiro internazionale ed ero convinto che potesse esistere un modo diverso di scrivere i testi, inserendoli in una differente zona sonora. Per cui, insieme ad altri ragazzi, iniziai a suonare e sperimentare in un piccolo studio di Lecco dove venni notato e quindi contattato da un manager discografico. Da lì mi fu fatta una proposta che si trasformò nella firma del primo contratto con la EMI e nella pubblicazione dell’album ‘A Berlino va bene’, nel 1981. Di fatto non avevo mai bussato alla porta di una casa discografica e non avrei mai pensato che la musica potesse diventare il mio lavoro. Erano altri anni, quando la discografia era ancora vera, solida e seriamente impegnata nella ricerca di personaggi nuovi. E questo valeva per tutti i generi. Oggi non sarebbe possibile una cosa simile per un ragazzo. L’unica opportunità che attualmente rimane è tuffarsi in quei posti terrificanti che sono i talent show e vedere che cosa succede.

Più nel dettaglio, quali sono stati i tuoi riferimenti da ragazzo?

Ero certamente più portato ad ascoltare cose poco popolari in Italia. All’epoca (si parla della metà degli anni Settanta) i miei coetanei ascoltavano i cantautori, o quanto usciva da Sanremo, oppure l’hard rock che arrivava dall’estero, parlo di gruppi come Deep Purple o Led Zeppelin. Invece restava fuori tutta quella zona alternativa che comprendeva i Velvet Underground, e quindi Lou Reed, o i Roxy Music. Successivamente mi sono avvicinato a David Bowie, a Brian Eno e, ancora, ai Kraftwerk.

La scoperta della tua voce, così scura e originale: quando hai capito che poteva essere uno ‘strumento’ importante di distinzione?
Inizialmente i miei tentativi erano legati alla composizione della musica. Poi decisi di scrivere anche dei testi e provarli direttamente a cantare. Facendo queste sperimentazioni mi dissero che avevo una bella voce, con un grana ben definita, anche se in realtà non ero mai stato a scuola di canto e veniva tutto fuori spontaneamente. Ecco che la casa discografica decise di scegliermi nel mio insieme, immagine compresa, senza forzature e imposizioni e, non ad esempio, semplicemente come autore per altri cantanti. Il che ha rappresentato una fortuna. Ero quello che ero (e sono), nel bene nel male, per cui non ho grandi rimpianti o recriminazioni da fare.

garboAll’epoca che ruolo giocavano le radio in tale contesto?
Per citare Eugenio Finardi, allora le emittenti potevano essere libere veramente, nel senso che non avevano lo strapotere odierno, che genera anche dei grossi limiti. In pratica nelle playlist viene inserito solo quello che editorialmente deve passare, per cui troviamo una sorta di omologazione su una ventina di ‘successi’ predefiniti e dichiarati a priori. Ai miei esordi le radio trasmettevano anche produzioni più anomale che ricevevano maggiore visibilità e, di conseguenza, popolarità. Un brano come ‘A Berlino va bene’ non era dedicato alle masse, e lo stesso si può dire di ‘Radioclima’, ‘Quanti anni hai’, ‘Il fiume’… Brani che pur non essendo allineati agli standard italiani venivano comunque parecchio trasmessi. Oggi è molto diverso, anche per certa televisione che decide cosa può funzionare, escludendo un underground che difficilmente, a tali condizioni, raggiungerà il successo.

Non credi che Internet possa rappresentare un buon veicolo per proporsi?
Se usata bene la Rete serve a informare su quello che un artista fa ma nel contempo è un enorme oceano dove tutto può disperdersi. Chi inizia adesso può certamente servirsi di Internet per farsi conoscere, ma l’attenzione che può ricevere è comunque molto relativa e superficiale. Non è infatti certo un ‘like’ che misura la portata della tua popolarità e sono rari i casi in cui qualcosa diventa virale, episodi straordinari o già progettati a tavolino. Internet è come la tv, qualcuno spende per farsi conoscere. Ma ne vale la pena oggi? No, perché dischi se ne vendono pochi o non si vendono per nulla. Oggi si guadagna con i concerti che possono poi servire a investimenti da destinare a progetti futuri, in dischi che a loro volta saranno da appoggio a una nuova attività dal vivo. E così via.

Da questo punto di vista tu però non ti sei mai fermato, hai continuato a pubblicare album, e ancora oggi credi nella produzione, anche con operazioni ‘limited’ destinate a chi ti segue con passione.
Sono operazioni che oltre per il piacere personale servono anche a portare avanti nuovi progetti. Quest’anno per festeggiare i 35 anni di attività ho ad esempio pensato di realizzare opere particolari, come un wooden box numerato andato subito esaurito in un paio di giorni nonostante il prezzo elevato. Lo stesso è accaduto per il 45 giri ‘Un graffio coerente’, realizzato con i Baustelle e Luca Urbani.

Oggi vieni identificato come uno dei padri della New Wave italiana e ci sono diversi artisti che hanno ammesso di averti avuto tra i loro modelli, tanto da aver registrato a tua insaputa nel 2006 anche un tributo con rivisitazioni di alcuni tuoi brani, intitolato ‘Con Garbo’…
È ovviamente qualcosa che mi fa molto piacere, a testimonianza del fatto che il mio lavoro non è stato a fine a se stesso ma ha comunque tracciato una rotta per le generazioni successive. Parliamo di nomi come quello di Francesco Bianconi dei Baustelle, piuttosto che dei Subsonica o Andy Fluon, che hanno dichiarato di aver deciso di fare un certo tipo di musica dopo avermi ascoltato. Credo che lo scopo di una vita artistica non sia soltanto quello di rinchiudersi in uno studio e progettare, ma anche di comunicare all’esterno. Fortunatamente nel mio caso è accaduto su più frange generazionali che poi hanno continuato e cercato una propria strada per poter sviluppare il percorso da me segnato. Senza presunzione, il tentativo è stato infatti quello di poter tracciare nuovi solchi e rinnovare ciò che in Italia veniva proposto. E di creare non dico una nuova autostrada ma quantomeno un nuovo sentiero che altri avrebbero asfaltato, costruendo una doppia carreggiata capace di portare in posti nuovi. Con la meta di un altro mondo emotivo e una visione alternativa. In parte ritengo di esserci riuscito.

garbo2La tua discografia è in effetti piuttosto variegata. Si parte appunto da quei suoni mitteleuropei dei primi dischi ‘A Berlino va bene’ e ‘Scortati’, passando per il grande successo de ‘Il fiume’, virate verso il pop di ‘Manifesti’ e sonorità più dure come quelle di ‘1.6.2’. Per non parlare di un progetto alternativo come ‘Up the line’, quello più recente della trilogia dei colori (‘Blu’, ‘Gialloelettrico’ e ‘Come il vetro’) e gli ultimi album, ‘La moda’ e ‘Fine’, per un insieme che denota una costante ricerca estetica anche nelle liriche…
Senz’altro la ricerca mi ha sempre spinto in tante direzioni a seconda dei bisogni e dei piaceri personali. Senza pormi tante domane sul fatto che potesse o meno essere gradito agli altri, bensì prima di tutto a me stesso. Altri colleghi hanno scelto una strada differente, commerciale, e forse questo ha rappresentato anche un mio limite… In generale ho sempre cercato di confrontarmi con i vari aspetti del mondo dei suoni. Da quello più di ricerca iniziale a matrice anglosassone ed europea, a delle fasi più leggere e transitorie dal punto di vista dei contenuti sperimentando sulla canzone pura. Ho quindi deciso di lavorare su progetti di musica ambientale, fino a un lavoro come ‘Up the line’ completamente avulso dal resto, sostanzialmente strumentale e legato al movimento del Nevroromanticismo (al quale partecipò anche Tommaso Labranca, recentemente scomparso e ricordato qui su Indiscreto, n.d.a.). Con gli album più recenti ho invece cercato un linguaggio ancora diverso fino all’ultimo, in coppia con Luca Urbani, intitolato ‘Fine’. Relativamente al citato ‘1.6.2.’ e al sound così lontano  dai lavori precedenti, all’epoca scelsi la collaborazione con i fiorentini Neon, per loro natura molto ‘duri’, che si legarono alle mie sonorità decadenti per un progetto nuovo e indipendente.

In quel periodo partecipasti anche al concerto del Primo Maggio… ripeteresti l’esperienza?

Se me lo chiedessero oggi direi di no. All’epoca il concerto del Primo Maggio era infatti qualcosa ad ampio respiro, di livello internazionale, e non così politicizzato. Venni invitato, andai facendo me stesso senza grossi problemi e senza dover avere una tessera particolare. Oggi sembra la sagra del radical chic e tutto quello che passa da lì deve essere conforme. I contenuti musicali li trovo scarsi, così come credo che venga fatto un uso piuttosto volgare di definizioni come ‘indie’.

La tua etichetta si chiama Discipline. Qual è il significato di questo nome e i suoi obiettivi?
Dico subito che non ha nulla a che vedere con Robert Fripp e i King Crimson. In realtà siamo negli anni Novanta, quando decisi di allontanarmi dalle major per sentirmi più libero. Gli Ottanta erano finiti, occorreva voltare pagina e vedere il futuro oltre la mia figura, lavorando direttamente anche su altri artisti. Scelsi questo nome pensando che potesse rappresentare un nuovo punto di vista di fare musica. La musica è una disciplina artistica che non prevede solo un possibile talento e istinto, ma anche una razionalità e un’educazione che si integrano poi con la creatività pura. E oltre al nome, Discipline, il simbolo che meglio identificava questo concetto era un triangolo equilatero. Nella nuova uscita ‘Garbo Living 2016’, un doppio CD live da poco disponibile, sulla copertina il triangolo non a caso è iscritto in un cerchio, simbolo universale e che non è altro che la rappresentazione dell’armonia ed equilibrio che tutti gli artisti dovrebbero raggiungere.

E veniamo infine all’annuncio del nuovo tour, che nei piani dovrebbe essere l’ultimo…
Partiamo il 10 ottobre a Lugano dall’auditorium della RTSI dove sarà anche tutto filmato per un futuro DVD, e chiuderemo alla fine del 2017, con l’intenzione di fare un tour abbastanza lungo e diluito nel tempo, insieme a una band già ben rodata di sei elementi. I concerti saranno anche l’occasione di incontrare il pubblico che da tempo non frequento, come quello di Roma e Napoli dove sarò a gennaio, e probabilmente verranno organizzate delle tappe anche in Sicilia e Sardegna. Un’occasione per fare tutti insieme un bilancio di 35 anni di attività. Dopodiché mi dedicherò ad altro, tra cui un nuovo disco di inediti e, probabilmente, anche qualcosa di personale al di fuori della musica.

“Io vivo tempo e amore, quando cammino” (Quando cammino)

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