La città di Roberto Alomar

10 Agosto 2011 di Stefano Olivari

di Tani Rex
La prima volta allo SkyDome è stata in un caldo pomeriggio d’estate di otto anni fa. Blue Jays vs Yankees. L’unico ricordo che abbiamo di quella partita è il souvenir che i commessi regalavano alle entrate dello stadio: una mazza da baseball di legno, autografata da tutti i giocatori. Per uno abituato ai controlli negli stadi da calcio, dove ti toglievano pure le monetine, fu una bella sorpresa.
Della partita non ricordiamo nulla. Nemmeno il risultato. Era di una noia mortale (per noi) e non capivamo come più di trenta mila persone (quasi la metà arrivate da New York State) potevano godere uno spettacolo cosi orrendo (per i nostri gusti di allora). Anni dopo abbiamo capito che quel pomeriggio i pazzi che andavano contromano in autostrada eravamo noi e non il resto dello stadio. Lo abbiamo capito dopo avere seguito un torneo di bambini. Ci siamo innamorati del baseball imparandolo dai piccoli e non lo abbiamo mollato più. Da quel giorno, allo SkyDome (ci piace chiamarlo ancora cosi, anche se ha cambiato nome da 6 anni in Rogers Centre) ci siamo tornati tantissime altre volte, ma mai abbiamo vissuto un’atmosfera e un’emozione cosi intense, come il 31 di luglio di quest’anno.
Sotto un caldo infernale, 45.629 spettatori ad applaudire in piedi e scandire il nome di Roberto Alomar, il primo giocatore nella storia del baseball ad entrare nella Hall of Fame come un Jay. Il primo giocatore nella storia delle ghiandaie azzurre a vedere il suo numero, il 12, ritirato. Nativo di Salinas (Puerto Rico), Robbie è un figlio d’arte. Era stato suo padre, Sandy Alomar Sr. (15 stagioni MLB come giocatore, e diverse panchine come allenatore), a scoprire per primo il talento fuori dal comune di quel bambino. A differenza del fratello maggiore, Sandy Jr. (anche lui 20 stagioni MLB come ricevitore), che era un buon atleta e praticava sport diversi, per Roberto esistevano solo la mazza, il guanto e le basi da conquistare. “Da ragazzino, tutto quello che volevo fare era giocare baseball.”, racconta Robbie. “Non giocavo né per il successo, né per i trofei: la mazza d’argento, il guanto d’oro. Niente di tutto ciò. Tutto quello che mi interessava era il baseball, e basta. Avevo un talento che Dio mi aveva regalato”.
All’età di sette anni giocava con quelli di 3-4 anni più grandi, tanto era il divario tecnico con i coetanei. “Vedere Roberto giocare con i suoi coetanei, era come vedere un uomo giocare contro i bambini”, ricordera’ Sandy Jr. Il più giovane dei fratelli Alomar cominciò ad attirare l’attenzione degli scout della Major League. Quando Robbie aveva 16 anni Pat Gillick, il general manager che costruì i Toronto Blue Jays, due volte vincitori delle World Series (1992-1993) e dopo i Philadelphia Phillies 2008, provò a portarlo a Toronto, facendo un’offerta migliore economicamente per il giocatore di quella dei San Diego Padres, ma Sandy Senior aveva dato la sua parola ai Padres, e Roberto fini per firmare per la franchigia californiana.
A Toronto arrivò sei anni dopo insieme a Joe Carter, in quello che è considerato il trasferimento più importante nella storia della franchigia canadese.
L’arrivo dei due completò la squadra che Gillick stava costruendo con uno scopo preciso: finalmente portare a Toronto il World Series Trophy inseguito da anni. L’arrivo del portoricano porto’ l’atletismo e la velocità che mancavano nel line-up di Toronto. Alomar riusciva ad eseguire giocate di elevata difficoltà e spettacolarità in difesa, con una velocità e naturalezza mortale per le mazze avversarie. Memorabile la giocata in Gara 1 delle World Series 1993 contro i Philadelphia Phillies. Al quinto inning il centerfielder Lenny Dykstra colpisce la palla che passa sopra la testa della prima base di Toronto John Olerud. Una palla che in 99 casi su 100 dovrebbe essere una base sicura per il battitore. Dovrebbe, perché Alomar, che aveva letto in maniera perfetta la traiettoria, fa una corsa di venti metri, e con un tuffo a sinistra prende la palla prima che quella cade per terra. Guardate questo filmato al minuto 03:50. Un incredulo Tim McCarver, che commentava quella finale, affermò che nessuna altro seconda base sarebbe stato capace nemmeno di avvicinarsi a quella palla.
Ma Alomar non è solo un grande difensore. E’ un “Five-tool player”, termine usato nel baseball per descrivere un giocatore completo: hit for power (capacità di colpire home run e basi extra), hit for average (la capacita di colpire durante ogni situazione di gioco), velocità (riuscire ad arrivare a “rubare” basi extra), fielding (capacità di coprire in fase difensiva), lanciare la palla. Il ruolo del seconda base nel baseball è paragonabile a quello del mediano nel calcio. E’ cruciale nel bloccare l’offensiva dell’avversario. E’ difficile per una squadra avere ambizioni se in seconda base c’è un giocatore mediocre, a meno che la sua linea di mazze non sia composta da battitori che colpiscono tutti sopra .300 e la batteria dei lanciatori è quella dei Phillies di oggi. Una delle armi difensive più efficaci, il “double play”, non può essere realizzato senza una sincronia profeta tra l’interbase e la seconda base. Quest’ultimo, dovrebbe correre per coprire la base, ricevere dall’interbase, evitare il runner che cerca di raggiungere la seconda base, e lanciare con precisione verso la prima base. Tutto questo in un batter di ciglia. Se poi il “mediano dai polmoni grossi”, è anche un attaccante eccezionale, rubando le basi (474) e colpendo con una media di .300 (con 2,724 hits, 210 HR, e 1134 RBI), entra di diritto nella categoria dei fuori classe. E Robbie Alomar era un fuoriclasse.
La luna di miele tra Robbie Alomar e Toronto durò fino al 1995. I Blue Jays decisero di ridurre il monte stipendi e ricostruire la squadra. Roberto voleva più soldi. Un giorno fa una dichiarazione imprudente (anche se legittima) affermando che avrebbe voluto giocare con Cal Ripken, Jr., all’epoca lo short-stop dei Baltimore Orioles, un’altra legenda del baseball, e comincia a tirare fuori delle scuse ridicole per una città come Toronto, dichiarando di sentirsi in pericolo di vita. Rifiuta di giocare le sue ultime quattro partite perché ha paura che un dolore alla schiena avrebbe contribuito ad abbassare la propria media in battuta. Tra l’ira e la delusione dei tifosi lasciò quindi Toronto per firmare per i Baltimore Orioles come free agent. Ma non si sarebbe liberato facilmente di Toronto, Roberto Alomar. Non immaginava che lo “SkyDome”, l’arena che lo aveva glorificato, sarebbe stato anche il testimone del punto più basso della sua carriera.
Il 27 Settembre 1996, i Baltimore Orioles giocano allo “SkyDome”. L’arbitro di casa base, John Hirschbeck, considera “strike” una palla che sembrava fuori (“ball”). Alomar si arrabbia, discute animatamente con l’arbitro e viene espulso. Ritorna in campo, ancora più arrabbiato di prima, continua a litigare e sputa in faccia all’arbitro. Non “contento” della figuraccia, in sala stampa dichiarerà che Hirschbeck non era più un uomo tranquillo da quando aveva perso il figlio, malato di adrenoleucodistrofia (ADL). La reazione di Hirschbeck fu violenta e cercò il confronto fisico con il portoricano. L’incidente fu comunque chiuso mesi dopo e i due fecero pace. Oggi lavorano insieme, aiutando la richerca sull’ADL. Un incidente, però, che i giurati che scelgono gli Hall of Famers non gli perdonarono l’anno scorso, il primo di eleggibilità, lasciandolo fuori. Alla fine della sua gloriosa carriera, collezionerà 10 Gold Gloves e sarà scelto per 12 volte nell’All-Star game..
” Ho visto moltissimi seconda base in vita mia. Mio padre giocò nella Negro League a nella Caribbean Winter League, dove ho visto giocare Cool Papa Bell. Io ho giocato con Julian Javier, Felix Millan, e Cookie Rojas. Ho giocato contro Bill Mazeroski e Joe Morgan. Nelle partite All-Star ho visto Rod Carew. Per quanto loro erano giocatori fantastici, nessuno, nessuno di loro

poteva avvicinarsi a Roberto Alomar. Io ho visto baseball per 60 anni, e lui è la migliore seconda base che io ho mai visto.” (Orlando Cepeda).

Tani Rex, da Toronto
(in esclusiva per Indiscreto)

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