John McEnroe, l’impero della perfezione può anche perdere

16 Maggio 2019 di Stefano Olivari

John McEnroe – L’impero della perfezione è un film così emozionante che chiunque ami un minimo il tennis e il cinema dovrebbe mollare tutto, in questo istante, e correre a vederlo. Sul grande schermo, in una sala con quattro spettatori, di pomeriggio. Ecco, la recensione del film-documentario di Julien Faraut potrebbe finire qui.

Ma l’entusiasmo per un’opera articolata su più piani ce l’abbiamo ancora addosso, quindi cominciamo con il dire che John McEnroe – L’impero della perfezione (L’empire de la perfection) è ad un primo livello basato sul monumentale lavoro di Gil de Kermadec: tennista e direttore tecnico della federazione francese, ma soprattutto cineasta.

De Kermadec aveva l’ossessione di filmare i tennisti per finalità didattiche, ed era riuscito a convincere la federazione a mettere in piedi un programma per riprendere in maniera cinematografica, ben diversa da quella televisiva, le partite del Roland Garros. Non gli scambi, ma le posture e gli atteggiamenti dei tennisti. Un lavoro monumentale e oltre il maniacale, che portò avanti per quasi venti edizioni del torneo, fino a metà degli anni Ottanta.

In un momento di lucidità De Kermadec, morto nel 2011, si rese conto che gran parte di quel lavoro era inutile, così verso la fine di quel programma decise di concentrarsi soltanto su John McEnroe. Anche nel suo caso lasciando perdere la totalità dello scambio, ma cercando il segreto del gesto. Tonnellate di materiale girato che il giovane Faraut, che comunque ha fatto in tempo a conoscere De Kermadec, ha salvato dal macero nei magazzini del mitico, e più ancora mitizzato, INSEP, per costruire un’opera che fonde tennis, cinefilia (citata e applicata la lezione di Godard) e psicologia in maniera trascinante.

John McEnroe – L’impero della perfezione non è di sicuro un documentario sulla carriera di McEnroe e di sport in senso stretto ce n’è poco. L’unica partita analizzata è quella strafamosa fra Mac e Ivan Lendl, finale del Roland Garros 1984, con McEnroe in vantaggio di due set a zero e poi rimontato dal ceco-americano che in quell’occasione si sbloccò vincendo il primo Slam della sua carriera (c’era chi diceva che Lendl fosse un perdente, ovviamente). Faraut e De Kermadec anche in questo caso non ne fanno una questione tattica, ma individuano quei piccoli segnali e quegli impercettibili gesti che fanno girare le partite, anche quelle non storiche.

Non bisogna dimenticare che McEnroe era un buonissimo giocatore anche sulla terra battuta, nelle poche stagioni in cui ci ha creduto e sempre tenendo presente che ai suoi tempi era una superficie lontanissima dalle altre. Al Roland Garros oltre a quella finale ha disputato una semifinale e due quarti, nella seconda metà di carriera praticamente non ci è mai andato. A Roma si è presentato una volta sola, nel 1987, perdendo in semifinale contro Wilander, nella sua Forest Hills (all’epoca torneo importante, anche quando non era più sede dello U.S. Open) ha sempre fatto bene.

Ma il film, sembra incredibile dirlo, prescinde da McEnroe pur essendo tutto su di lui. E non è nemmeno la solita sbobba su quant’era bello il tennis di una volta, i gesti bianchi, eccetera. È uno studio sulla ricerca della perfezione, possibile soltanto a persone con tratti di ossessività e manie di persecuzione. Persone che si nutrono del conflitto, base del successivo stato di grazia. La cosa che a distanza di anni fa impressione delle sfuriate di McEnroe non è il loro contenuto, ben evidenziato nel documentario (sfuriate anche contro i microfoni di de Kermadec), ma il loro tramutarsi quasi immediatamente in energia positiva. Per McEnroe e i pochi umani come lui, mentre chiunque altro sarebbe andato fuori di testa. La ricerca della perfezione può far perdere le partite, come fu in quella finale, ma chi vuole vivere una vita piena, anche al di là del giochino vincente-perdente, sa che deve passare da lì.

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