John Howard, da Abbey Road all’oblio e ritorno

13 Novembre 2015 di Paolo Morati

John Howard and The Night Mail

Nel 1975 il ventenne inglese John Howard pubblicò un album intitolato Kid in a Big World, che nonostante le premesse, la qualità dell’opera e il nome della casa discografica non riuscì a trovare spazio in radio per ragioni apparentemente legate alla malinconia di alcuni temi, ma nella realtà (gli fu raccontato anni dopo) relative alla sua omosessualità. Anche i successivi progetti non ebbero la fortuna sperata, e dopo una collaborazione con Trevor Horn a cavallo del decennio successivo, il ragazzo del Lancashire decise di ritirarsi dietro le quinte. A distanza di decenni quel primo disco, fatto di racconti vivacemente inusuali per l’epoca, è stato finalmente riscoperto e Howard ha cominciato di nuovo a scrivere e cantare con l’ultimo album, John Howard & The Night Mail pubblicato dall’etichetta tedesca Tapete Records, che si presenta come un’opera di spessore sia per la costruzione delle storie narrate che per i suoni e gli arrangiamenti che sembrano riportare indietro a un tempo migliore, tra ballate e ritmiche estrose. È il caso, in tal senso, del singolo Intact & Smiling (scaricabile gratuitamente da Soundcloud), che rende già bene l’idea di cosa aspettarsi dall’opera. Senza tralasciare la bella copertina, elemento una volta importante quanto il contenuto per distinguere il ‘prodotto’ discografico e farlo ricordare ai posteri. In questa intervista, rilasciata in esclusiva a Indiscreto, ci parla delle nuove canzoni raccontandoci anche un po’ della sua storia, tra i ricordi di vita, la ‘dimenticata’ esperienza negli studi di registrazione Abbey Road e l’era dei Beatles.

Cominciamo dal nuovo album. Qual è stato l’approccio alla composizione e scrittura delle canzoni con gli altri musicisti del gruppo e qual è stata la scintilla che ha reso possibile la vostra collaborazione e la decisione di produrlo?

Tutto è partito da Robert Rotifer. Insieme ad Andy Lewis e Ian Button espresse il desiderio di realizzare un album con me dopo che il nostro primo concerto del novembre 2013 era andato così bene, divertendoci molto. Il ‘problema’ principale era che abitavo in Spagna, per cui non potevamo riunirci insieme a scrivere le canzoni. Naturalmente oggi Internet rende le cose molto più semplici quindi ho inviato ai ragazzi i testi via email e loro hanno fatto lo stesso con me. Abbiamo iniziato a lavorare mettendoli in musica separatamente, scambiandoci provini online, e alla fine dell’autunno 2014 siamo arrivati ad avere pronti dieci nuovi brani. Non sapevamo ancora quale sarebbe stato il risultato finale, ma eravamo comunque già molto soddisfatti. A novembre abbiamo quindi prenotato per quattro giorni gli studi in Ramsgate trascorrendovi insieme dei momenti straordinari.


Il disco ha un suono piuttosto ‘vintage’ e ‘reale’. Qual è la ragione di questa scelta e come si è svolta la registrazione in termini di strumenti e approccio alla produzione?

Fin dalla fase iniziale abbiamo deciso di registrare l’album dal vivo in studio, come una band: io al pianoforte, Robert alla chitarra, Andy al basso e Ian alla batteria. Abbiamo successivamente sovrainciso alcune percussioni aggiuntive di Ian, ulteriori chitarre, le mie voci soliste e le armonie. I ragazzi mi hanno poi raggiunto al microfono per i cori. È stato un lavoro eseguito seguendo la ‘vecchia scuola’, basato molto di più sulla mia formazione degli anni ’70 che quella degli ’80 e dei ’90 di Robert, Ian ed Andy. L’unica cosa ‘extra curriculare’ che abbiamo sovrainciso è stato il mellotron, che per la maggior parte Andy ha registrato una notte da solo in studio. Ero al settimo cielo quando ho sentito ciò che aveva fatto mentre stavo dormendo. L’unica parte di mellotron che invece ho suonato io nell’album è quella di Thunder in Vienna. Mi ha riportato indietro all’epoca delle registrazioni di Kid In A Big World negli studi di Abbey Road nel 1974, per il quale utilizzammo appunto un mellotron.

Passando ai testi, in ‘In the light of fires burning’ canti ‘Oh Syd look what we did we took all your dreams and made them nightmares instead and Emily only plays cards now’. Si nota un riferimento a Syd Barret… allo stesso tempo citi anche Gerry Goffin. Una sorta di ‘memoria’ dei tuoi ricordi musicali… Ci puoi raccontare qualcosa in più di questa canzone, della sua storia e del messaggio che volevi trasmettere?

Ho scritto questo testo pensando a Ian Button come autore della musica. La sua band, Papernut Cambridge, mi ricorda qualcosa del periodo dei Pink Floyd con Syd Barrett e sapevo che se ne sarebbe uscito con una grande melodia. Ma certamemente la canzone è scritta con in mente molti dei miei eroi musicali. Sono cresciuto negli anni ’60 con i Beatles, i Pink Floyd di Syd Barrett, Brian Wilson, Burt Bacharach, Goffin & King, Jimmy Webb, eccetera, ma anche da piccolo ero comunque cosciente della popolarità di un brano come Telstar di Joe Meek, che veniva spesso fatto sentire nei parchi di divertimento, e che secondo me incarnò l’era del pop britannico pre-Beatles. La canzone quindi attraversa gli anni ’60 e finisce con i Beatles, partendo da quella apparizione da Ed Sullivan nel 1964 che ha cambiato il mondo, passando per i tre incredibili anni in cui sono diventati gli idoli psichedelici della musica popolare. So di essere di parte perché è il ‘mio periodo’, ma rimarrò sempre convinto che gli anni ’60 sono stati il decennio più emozionante per gli appassionati di musica pop.

Tip of your shoe esordisce con ‘I saw the message you had scrawled on that 21st century toilet wall’. Sembra un riferimento implicito ai social network. Qual è la tua opinione su questi mezzi e la differenza con i vecchi modi per relazionarsi?

Il testo è di Robert Rotifer ed è decisamente brillante. La parte che citi è una delle descrizioni migliori che ho mai letto di siti come Facebook e Twitter. È stata una gioia scrivere per un insieme di versi così straordinari. I social media sono utili finché non vengono presi troppo seriamente. Io li uso solo per promuovere la mia musica. Non ho alcun interesse per loro come appendice della mia vita sociale. Credere che avere centinaia di cosiddetti ‘amici’ possa migliorare la tua vita può rivelarsi una totale delusione. Quando si muore solo gli amici personali e la famiglia ne saranno addolorati, tutti gli altri con cui si stava in rete attraverso i social, in tutti i Paesi e continenti, magari si rattristeranno per un momento, ma poi andranno avanti a conversare con qualcun altro. Ha bisogno di aiuto chi è convinto veramente che persone che non hai mai incontrato e che ti dicono quanto sei ‘straordinario’, oppure apprezzano una foto delle tue vacanze, siano in grado di aggiungere qualcosa alla tua vita. Il mio suggerimento è di uscire fuori a bersi un caffè con i veri amici e rendersi conto che esiste tutto un mondo reale. Naturalmente un’altra faccia della medaglia dei social media, la meno piacevole, è quanti ritengono sia giusto insultare persone mai incontrate o che non conoscono personalmente.

Puoi raccontare come hai iniziato a studiare musica e a suonare e chi era e come è cresciuto quel bambino di nome John?

A sette anni ho cominciato a studiare pianoforte classico. Mio padre era un pianista jazz e fin da molto piccolo sono cresciuto ascoltandolo e desiderando di essere come lui. A diciassette anni ho iniziato a portare sul palco le mie canzoni. Sono cresciuto nel Lancashire, con un’educazione molto ordinaria, un’infanzia felice, e l’ambizione di essere un autore di canzoni fin dall’età di 12 anni. In quella zona ho costruito una solida base di fan all’inizio degli anni ’70 esibendomi in diversi folk club e Università e College e, quindi, a 20 anni mi sono trasferito a Londra, nel 1973, cercando di ottenere un contratto discografico. In poco tempo mi è stato commissionato il tema del nuovo film di Peter Fonda e ho firmato per la CBS Records. Tutto questo in circa tre mesi dall’arrivo a Londra. All’epoca ero dentro un vero vortice, certamente molto emozionante.

Il tuo primo album Kid in a Big World uscì nel 1975 incontrando difficoltà a passare in radio per poi essere riscoperto all’inizio del nuovo millennio insieme agli altri due dischi mai pubblicati. Come hai vissuto questa situazione?

Ho fronteggiato ciò che negli anni’ 70 era sembrato un ‘fallimento’ semplicemente andando avanti. Non sono una persona che ha dei rimpianti o cerca di immaginare che cosa sarebbe stato se le cose fossero andate diversamente. Avevo una visione positiva delle cose il che, credo, sia un fattore che aiuta a proseguire e passare ad altro. All’inizio degli anni ’80 ho cominciato a lavorare nel settore musicale ed è stato un periodo positivo, occupandomi degli album per diversi grandi artisti, gestendo anche gli aspetti legali delle licenze per le raccolte. Un periodo divertente e ben pagato, con tanti spostamenti, adatto ai miei 30 e 40 anni. Ho scritto occasionalmente per altri artisti e registrato un disco alla metà degli anni ’90’ (pubblicato solo nel 2008), ma in ogni caso ero concentrato principalmente sulle carriere altrui anziché rattristarmi del fallimento degli anni ’70. Tuttavia, una volta che nel 2003 Kid In A Big World è stato di nuovo pubblicato ottenendo recensioni lusinghiere, è arrivato lo stimolo per iniziare a scrivere ed esibirmi di nuovo. Avere l’opportunità di registrare con, tra gli altri, l’etichetta Cherry Red, è stato qualcosa di piuttosto inaspettato. E una volta tornato sul palco nel 2004 per presentare le mie canzoni, è stato come se non me ne fossi mai andato.

Puoi dire qualcosa in più sulla tua collaborazione con Trevor Horn alla fine degli anni ’70?

All’epoca Trevor viveva e si esibiva con la cantante Tina Charles che registrava con il produttore Biddu, con cui avevo lavorato per il mio album del 1975, Can You Hear Me OK? Il mio manager mi presentò a Trevor, che desiderava diventare a sua volta produttore, e parlammo di poter fare insieme qualche canzone. La prima che scrissi per Trevor, I Can Breathe Again, era in realtà stata realizzata perché la passasse a Tina in quanto la ritenevo adatta a lei. Tuttavia Trevor volle che la registrassi io, diventando il nostro primo singolo insieme, pubblicato nel 1978. È stato il disco che mi ha portato finalmente in rotazione sul canale radiofonico nazionale della BBC. Lavorare con Trevor è stato meraviglioso, una persona molto ispirante e sempre pronta a considerare una nuova idea, come ad esempio il mio falsetto in Breathe Again! Siamo ancora in contatto, sebbene solo occasionalmente, ma ogni volta che ci incontriamo chiacchieriamo come ai vecchi tempi. È un tipo amabile.

Quanto è cambiato negli anni il modo di fare e promuovere musica?

Quarant’anni fa la promozione della musica ruotava tutta intorno alla radio, Se non venivi trasmesso a livello nazionale il tuo disco era morto. Poi all’emergere della ‘Disco’ tra la metà e la fine dei ’70, i DJ che lavoravano nei club hanno iniziato a creare i successi, come ad esempio Love To Love You Baby di Donna Summer. Ho ascoltato quel brano per mesi nelle discoteche prima che diventasse una hit e questo non aveva nulla a che vedere con la diffusione in radio. Adesso non sono invece così sicuro di come una canzone si trasformi in un successo. Se lo sapessi, lo farei per me stesso. Per me, cresciuto negli anni ’60, il processo di acquisto di un disco – ad esempio un singolo o un LP in vinile – era parte integrante del divertimento. Ora è tutto digitale, non ci può essere la stessa eccitazione di quando risparmiavo per settimane per poi andare al negozio di dischi locale a comprare Sgt Pepper dei Beatles, ascoltarlo nella cabina del negozio e, infine, metterlo sul piatto del mio giradischi in camera da letto, rilassarmi e assorbirlo. La musica pop è diventata usa e getta, molto istantanea, ‘importante’ quanto i videogiochi. Non esiste attesa, anticipazione, e certamente appare come meno importante ai giovani di oggi. Oggi le star del cinema e gli eroi sportivi sembrano avere più riconoscimenti da parte dei giovani rispetto alle pop star.

Cosa ne pensi dei talent show e pensi che possano sostituire la gavetta di una volta per i giovani artisti?

Io non guardo i talent show come X-Factor, non mi interessano. Se mi capita di imbattermi in uno di loro in televisione tutto ciò che sento sono ragazzi che strillano alla Beyoncé o Mariah Carey, che Dio ci aiuti, e alcuni giudici più o meno famosi che saltellano su e giù come se fosse la cosa più bella che abbiano mai sentito, il che è impossibile. È tutto così falso, con quelle lacrime che vengono versate tutto il tempo… si piange in continuazione. Ragazzi, riprendetevi… Quando i Beatles in pochi giorni vendettero un milione di copie di I Want To Hold Your Hand e finirono direttamente al numero 1 della classifica nel 1963, non scoppiarono certo a piangere, ma semplicemente saltarono in macchina per il concerto successivo. Quando Cilla Black ebbe due numeri uno in simultanea nel 1964, non si mise a piagnucolare davanti alla telecamera, ma disse ‘Yeah, mica male, eh?’ e passò a registrare la sua hit successiva. Desiderare e raggiungere la ‘fama’ è diventato più importante che produrre ottima musica, e certamente questo andrà avanti finché il pop mainstream funzionerà. I talent show televisivi non potranno mai produrre popstar che durano nel tempo. La loro idea generale è quella creare rapidamente qualcosa di grande, far guadagnare il più possibile a chi gestisce lo spettacolo, e quindi scomparire in tempo utile per poter lasciare il posto al prossimo candidato desideroso di mostrare la propria faccia.

Cica dieci anni fa ti sei trasferito in Spagna…

In Spagna mi sono semi ritirato. Il progetto era di registrare nel mio studio a casa, quando me la sentivo, pubblicare occasionalmente album con la mia etichetta, e godermi una vita piuttosto tranquilla nel mio giardino sotto il sole. Ed è esattamente quello che ho fatto dal 2007 e che voglio continuare a fare. Mi piace avere la possibilità di scegliere di fare quello che voglio quando voglio. Dovessimo parlare di concerti con i The Night Mail, se sarà giusto farli probabilmente accetterò. Di fatto abbiamo già degli show previsti a marzo in Germania e a Vienna. Ma dopo quelli non ho idea che cosa succederà. Non voglio cominciare a suonare in lungo e in largo, non ho più le stesse energie di qualche anno fa. E ho ambizioni molto semplici: essere felice e in salute, divertirmi a scrivere quando voglio, e occasionalmente registrare e pubblicare un album di cui sono orgoglioso. Quando non mi diverto più a fare qualcosa, la pianto lì. È la mia ricetta per mantenermi sano e rimanere felice.

Abbiamo qualche possibilità di sentirti in Italia? Cosa ne pensi della musica italiana?

Sarebbe bello suonare in Italia ma lascio comunque i piani per decidere questo a Tapete Records. Se ci offriranno qualcosa nel 2016 ne parleremo come band. Non conosco invece molto la vostra musica. Mi puoi suggerire qualcuno da ascoltare? Ad ogni modo, amo l’Opera italiana.

Chiudiamo con il brano Before, che parla del tempo che passa. Qual è il suo messaggio e, in generale, sei soddisfatto della tua vita e quali sono gli episodi migliori che ricordi?

Before è una di quelle che definisco le mie canzoni-storia. Quando l’ho scritta avevo in mente questo personaggio immaginario di femme fatale, fin dagli splendidi anni ’60. Qualcuno che ha vissuto al vertice da giovane ma che ora è una persona che raramente esce dal suo appartamento e vive semplicemente con i ricordi dei ‘bei tempi’. Nel testo c’è anche a un accenno al fatto che si sta nascondendo da qualcosa di brutto del suo passato. Non c’è un vero e proprio messaggio, è una storia di fantasia, mi piace dipingere scenari per i protagonisti dei miei testi e vedere questi dove alla fine li portano. La mia vita è ottima. Ho un marito meraviglioso, stiamo insieme da trent’anni, una casa adorabile, due bei cani, e quella libertà creativa che desideravo negli anni 70. Chi non potrebbe amare la mia vita? Di ricordi migliori ce ne sono parecchi! Realmente troppi da citare. Credo che uno di questi risalga alla pubblicazione nel 2003 di Kid In A Big World da parte di RPM, che ottenne una recensione così positiva da Paul Lester di Uncut Magazine. Non ne avevo mai avuta una così in tutta la mia carriera, e scoprire che finalmente un album in cui avevo sempre creduto quando pochi altri invece lo avevano fatto, aveva ottenuto il riconoscimento che meritava – e lo dico riferendomi a tutti quelli coinvolti nella sua registrazione – è stata una cosa molto emozionante. D’altro canto, mi piacerebbe ricordare di più delle registrazioni di Kid In A Big World negli studi di Abbey Road. Ricordo molto poco di quel periodo. Immagino che la giovinezza e l’arroganza dell’essere giovane, pensando ‘io sono nato per fare questo’, non mi fece percepire nulla di particolarmente speciale. Non ricordo nemmeno di aver camminato in quegli studi, sorprendente visto che ci ho trascorso settimane da aprile ad agosto 1974. Immagino, all’epoca, di averlo semplicemente accettato come qualcosa che avevo sempre pensato mi sarebbe prima o poi successo. Qualcosa di terribilmente precoce da dire, non trovi? Ma avevo una tale fiducia in me stesso all’epoca…Ora mi guardo indietro penso “Wow! Ero io che suonavo lo stesso mellotron che i Beatles avevano usato in Strawberry Fields Forever!”. Oggi ne ho invece un ricordo come da osservatore esterno, come se fosse accaduto a qualcun altro.

E i piani per il futuro?

Il futuro? Ho appena finito di lavorare su un nuovo album da solista che uscirà il prossimo anno. Quelli precedenti, dal 2006 includevano chitarre, percussioni, pianoforte e così via, tutti suonati da me, il che ovviamente ha richiesto molti mesi di lavoro. Per questo nuovo disco invece è stato seguito un approccio piuttosto diverso, limitato al piano e voce, anche se ce ne sono molti. Di recente ho pubblicato su YouTube un video di anteprima di una delle nuove tracce, ‘Preservation’, come assaggio, e la reazione è stata molto positiva da parte di chi mi segue, quindi non vedo l’ora di uscire con il disco il prossimo anno. Non sono invece sicuro se ci sarà un nuovo album con i Night Mail. Aspetto notizie da Tapete Records. Sarebbe comunque bellissimo.

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