Ivory come Mourinho

21 Ottobre 2010 di Stefano Olivari

di Stefano Olivari
2 – La recensione di ‘Quella sera dorata’, con il grande regista americano che sceglie un’ambientazione uruguayana senza però rinunciare ai suoi ingredienti base. 

Con duecento film arretrati da recensire, quasi tutti mainstream da multisala o trash (siamo piccolo borghesi e abbiamo coscienza di classe) in attesa di snobistica rivalutazione, riprendiamo la rubrica con quello visto più di recente. In attesa ovviamente di riordinare gli appunti sugli altri: abbiamo cose molto intelligenti da dire su Delta Force e Chuck Norris, ma forse non le diremo mai.
Allora andiamo con Quella sera dorata, il lungometraggio (la TSI ce l’abbiamo dentro) di James Ivory tratto da un romanzo di Peter Cameron che non abbiamo letto e mai probabilmente leggeremo perchè dopo Dostoevsky (o era dopo Philip Roth? Sicuramente dopo Alain Elkann, il cui ‘I soldi devono rimanere in famiglia’ dovrebbe essere studiato alle scuole elementari per convincere i bambini della nobiltà del lavoro manuale) il romanzo è morto. Non è possibile leggere tutto, sapere tutto, vedere tutto, conoscere tutti i giocatori anche di un solo sport: ammettiamo la necessità del cialtronismo, entro un certo limite, ma comunque ci angoscia vedere qualcuno che ne sappia più di noi.
Ma si diceva del film di Ivory, che a parte l’ambientazione sudamericana ha messo nella pentola i soliti ingredienti: interni di famiglia, il passato che non passa, Anthony Hopkins. Sì, ma di cosa parla? La domanda che gli intellettuali scomodi qui di Baggio si fanno è pertinente, anche perchè la rubrica ha l’unico scopo di fare bar sul cinema con chi almeno ha visto il film (sul Muro capita di leggere ‘Io la partita non l’ho vista, ma Allegri secondo me ha sbagliato…”) senza bisogno di definirsi cinefilo.
Si parte da un’università americana, dove il giovane Omar Razaghi per sperare di diventare professore non deve essere figlio del vecchio Omar Razaghi come accade nell’area mediterranea (ma anche in parte in quella anglosassone, con la non trascurabile differenza che lì il giudizio etico pubblico sulla raccomandazione è negativo mentre qui trovi l’immancabile cretino che ti spiega che ‘la segnalazione è una cosa diversa’) ma deve produrre un saggio originale su una figura di spicco della letteratura mondiale.
Il fenomeno è l’uruguayano Jules Gund, da poco scomparso. Le lettere alla famiglia e alla fondazione, per chiedere collaborazione, ricevono solo rifiuti e il giovane Omar è disperato. Non può diventare junior account executive, perchè in Colorado non ce ne sono (o forse sì, ma vengono correttamente definiti impiegati), e nemmeno iscriversi ai disoccupati organizzati per ricattare un sindaco. Così subisce le spinte della concreta fidanzata Deirdre, che lo invita a forzare la situazione recandosi sul posto e tirando fuori un saggio fenomenale basato sulla conoscenza di prima mano della vita dello scrittore.
Giusto della vita, perchè le opere sono in fondo un’opera sola: una specie di romanzo basato sulla storia della propria famiglia, quel genere di spazzatura che molti noi hanno nel proprio cassetto ma che Gund è riuscito in qualche modo misterioso a infiocchettare. Omar prende l’aereo ed arriva in un Sudamerica da cartolina: le auto di sessanta anni fa (la storia sarebbe ambientata ai giorni nostri), le strade polverose, qualcuno addirittura che gira a cavallo, mancano giusto Obdulio Varela e Ghiggia a giocare nei prati.
Sul pullmann che prende quasi per caso trova ovviamente una bambina che è la figlia di Gund, Portia. Figlia di lui e dell’amante Arden (una Charlotte Gainsbourg fuori dalla gabbia della fighetta francese), un’amante che lo scrittore però si era portato a vivere a palazzo insieme al resto della famiglia: la moglie Caroline (Laura Linney), pseudo-pittrice che detesta tutto e tutti (in particolare il Sudamerica), il fratello Adam (Anthony Hopkins, che all’epoca delle riprese non poteva immaginare che la produzione l’avrebbe pagato al ritmo di un editore italiano) con il fidanzato di origine asiatica Pete la cui fissa per l’imprenditoria contrasta con l’andamento lento della vita di campagna uruguayana.
Andamento comunque meno lento dei soliti Ivory, molta malinconia, amori cerebrali, un passato felice, fughe e cose non dette. Addirittura anche un po’ di azione, con Omar che dopo essere caduto da una scala finisce in ospedale e la fidanzata che accorre dall’America (ma cosa vi aspettavate, Van Damme?). Non sveliamo il finale, con le caselle che vanno al loro posto come in un fotoromanzo di Grand Hotel, ma diamo merito all’ottantaduenne californiano di avere sempre una buona mano. Creatore di atmosfere più che di trame di gioco, perfetto nella scelta e nella motivazione degli attori, con molti antipatizzanti ma anche i risultati di tutta una carriera dalla sua. Una carriera di alto proflilo in molti paesi, da regista-manager: soprattutto USA, India e Inghilterra. Praticamente Mourinho, quello che era solo un bravo comunicatore. Come Ivory. 
Stefano Olivari
(in esclusiva per Indiscreto)

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