Italo Disco, il suono scintillante degli anni 80

31 Marzo 2022 di Paolo Morati

Lo scriviamo subito. Ci siamo emozionati alla visione di Italo Disco, il suono scintillante degli anni 80, il documentario di Alessandro Melazzini dedicato a un genere musicale capace di fare il giro del mondo e ritorno. E questo già dalle prime note di Dolce Vita, il brano epico di Ryan Paris che lancia degnamente un’opera che forte di un approccio storico al tema ne analizza le evoluzioni con testimonianze di protagonisti ed esperti, italiani e internazionali. Ne abbiamo parlato con il suo autore e regista, italianissimo ma da più di 20 anni in Germania, il che non sembra un caso visto che il decollo della popolarità internazionale della Italo Disco iniziò proprio da lì…

Partiamo dall’inizio del documentario, quando Sabrina Salerno dichiara che gli anni 80 sono stati raccontati in maniera molto superficiale…Concordi con questa affermazione?

Sabrina è parte in causa, per cui è normale che abbia vissuto male certe critiche del passato, tanto che all’inizio era stata un po’ restia a farsi intervistare. Capita la natura del progetto non ci sono poi stati problemi. Detto questo, le produzioni della Italo Disco si sono prestate facilmente alla critica, anche considerando la loro estetica luccicante e colorata. Insomma, molti certo avranno arricciato il naso e pensato: sotto il vestito niente. Gli anni 80 arrivavano dopo i 60 e i 70, e questo non è solo un fatto cronologico. I primi sono stati una vera fucina creativa in fatto di musica, mentre i secondi sono stati caratterizzati da un deciso impegno politico, soprattutto in Italia. Molti critici impegnati hanno quindi considerato gli anni 80 con il sussiego dei fratelli maggiori nei confronti di quelli minori: gli anni del disimpegno, del riflusso. Gli anni superficiali. Con la distanza dell’oggi tutto questo può venire osservato da una prospettiva più ampia. Il tempo passa e consente di analizzare in modo più approfondito e con meno pregiudizi se e cosa c’era sotto quella superficie. Questo è appunto l’approccio che ho avuto nel realizzare il documentario.

 

Sabrina Salerno © Alpenway Media GmbH

Partiamo quindi dalla genesi di questo progetto. Come è nato e quali erano gli obiettivi? Su quali basi sono state selezionate le testimonianze e i diversi brani citati?

Nel corso dello scorso decennio mi sono dedicato a temi molto vari, dal sociale allo spirituale. Questo documentario è arrivato dopo che avevo già realizzato un primo lavoro sul mondo del pop e in particolare sulla vita scandalosa di Ilona Staller, meglio conosciuta come Cicciolina. Un lavoro inizialmente circondato da pregiudizi (l’ho coprodotto con il canale franco/tedesco ARTE, la RAI si era rifiutata) ma che successivamente mi ha dato molte soddisfazioni. Addirittura un giorno ho ricevuto un messaggio di complimenti da Margarethe Von Trotta, che mi ha confessato di aver rivalutato il personaggio dopo aver visto il documentario. Chiuso tale progetto, oggi disponibile in Italia su Sky, mi sono dedicato a un tema leggermente diverso: l’eredità culturale dei monaci cistercensi. Un tema che mi ha dato molto, in termini di riflessione e conoscenza umana, a me che da anni sono interessato al buddismo zen. In particolare sono rimasto particolarmente legato all’Abate del Monastero di Chiaravalle Milanese. Concluso il lavoro sui monaci, purtroppo non ancora disponibile in Italia, e producendo in parallelo vari documentari tv di altri registi con la mia società Alpenway (alpenway.com/italodisco) e coaudiuvato dalla mia valida collega Marisa Scherini, ho iniziato a intensificare l’impegno verso la Italo Disco, essendo riuscito a convincere ARTE e Rai Com. Ho quindi iniziato a studiare e documentarmi, attingendo a diverse fonti, molte delle quali disponibili via Internet grazie alla passione incredibile di veri fan. Ricordo di aver letto con interesse la biografia di Claudio Cecchetto e il volume The History of Italo Disco di Francesco Cataldo Varrina, oltre a saggi internazionali. Un processo di studio e informazione non breve, volto ad arrivare a strutturare il tutto non come una carrellata di interviste bensì come il racconto di un percorso artistico ma anche sociologico ed economico di un fenomeno che in Italia è stato all’epoca poco considerato. Un mondo in cui i cantanti erano un tassello, ma un’importanza forse superiore l’avevano i produttori, senza dimenticre DJ e compositori. Tra questi ho subito avuto il desiderio di intervistare Pierluigi Giombini, a cui si devono grandi hit come Dolce Vita, Masterpiece, I like Chopin. Insomma, volevo mostrare la natura poliedrica di un fenomeno seguendo un determinato percorso filologico. Chiaro che dovendo restare nei tempi televisivi (il documentario dura 53 minuti per la tv e una decina di minuti in più per la versione per i festival, ndr) non ho potuto inserire tutto quanto avrei voluto. Tuttavia ho selezionato non solo nomi famosi come i fratelli La Bionda o Sabrina, ovvero l’inizio e la parte finale della Italo Disco, ma anche produzioni più conosciute all’estero rispetto all’Italia, come ad esempio Roberto Zanetti, in arte Savage (Intervistato di recente da Indiscreto, ndr). Non nascondo di aver ricevuto anche dei no o delle mancate risposte. È stato il caso dei Daft Punk, di Giorgio Moroder, dello stesso Cecchetto. Ho invece coinvolto personaggi in Italia meno noti come Linda Jo Rizzo, voce e poi anche volto delle Flirts, per citare un contributo americano alla Italo Disco oltre che raccontare come all’epoca ci fossero veri e propri progetti basati sull’immagine con i cantanti veri che stavano dietro le quinte. Non potevo poi non intervistare alcuni fan, e ho scelto il danese Flemming Dalum, che ha una collezione smisurata di vinili e oggi remixa successi passati. Causa pandemia e, soprattutto, grosse restrizioni di budget, non sono potuto andare in Messico dove esiste una nutrita base di fan della Italo Disco o filmare un festival a tema che si sarebbe dovuto tenere a Bergamo nel 2020. Ho cercato nella narrazione di toccare le origini per arrivare ad accennare ai motivi dell’esaurimento del fenomeno. Come spiegano i La Bionda, la Italo Disco nella sua fase conclusiva ha perso lo smalto per via del moltiplicarsi incontrollato di produzioni scadenti. Quando le major hanno fiutato l’affare, dopo aver snobbato per anni il genere, lo hanno inglobato facendone diluire quell’energia positiva che aveva prodotto dei grandi successi generati da un mix incredibile tra mainstream e underground.

La storia inizia dalla fine degli anni 70, con i primi brani dei fratelli La Bionda e le contaminazioni precedenti della Munich Disco di Giorgio Moroder. Chi sono quindi i padri della Italo Disco?

Non si può scegliere un nome, certamente il via è stato dato dall’uso dei primi sintetizzatori. Qui i La Bionda hanno giocato un ruolo fondamentale, ma non bisogna dimenticare personaggi importanti come Freddy Naggiar della Baby Records o Claudio Simonetti e Mauro Malavasi, citati nel documentario dal DJ e grossista Claudio Casalini. Un anello di congiunzione tra la disco italiana e la Italo Disco l’ho visto nel gruppo degli Easy Going, importanti anche per il loro impatto sulla cosiddetta ‘gay culture’, come nel documentario spiega il sociologo Ivo Stefano Germano. Poi ci sono tutta una serie di brani che per motivi di tempo e di diritti non sono riuscito a inserire, ma che mi piacciono molto e trovo davvero innovativi. Penso a Take a chance di Mr. Flagio, Gimme love dei Cellophane, senza contare tutto il discorso sui Creatures, il gruppo che suonava all’Altromondo Studios di Rimini e che aveva splendide copertine: non sono riuscito a ottenere i diritti per mostrarle nel documentario, che peccato.

La Bionda © Alpenway Media GmbH

L’approccio seguito non è quindi stato solamente di analisi dal punto di vista storico e musicale ma anche sociale. In particolare si parla del ruolo del DJ. Emerge per esempio che questi in Italia diventa ‘artista’. Cosa significa e come si è declinato poi nel tempo?

Grazie alla Italo Disco e alle megadiscoteche la figura del DJ passa dallo sfigato che mette i dischi del club al sacerdote delle notti, che officia la “messa pop” di fronte ai suoi fedeli. La figura del DJ superstar di oggi, molto presente in Nord Europa, in fondo è nata grazie agli italiani. Di questo nel documentario parla il produttore musicale e creatore di label italotedesco Mathias Modica. Il tutto parte alla metà degli anni 70 sulla riviera romagnola, prima ancora dell’apertura del celebre Studio 54 di New York. Pensiamo alla Baia Imperiale di Gabicce Mare, prima Baia degli Angeli, fondata nel 1975, dove la consolle era collocata in un ascensore che saliva e scendeva dai vari piani di quella discoteca architettonicamente avveniristica. E non fu un caso che tutto partisse dalla zona dell’Emilia-Romagna, non soltanto per la presenza di imprenditori, in grado di investire nell’industria del divertimento ma anche per la presenza di fabbriche di giostre, ossia quella grande capacità meccanica introdotta nelle strutture delle grandi discoteche. Nel contempo per il rito della notte divenne necessario sì produrre tanta musica ma anche incitare le persone a danzare. Così il DJ non fu più chi metteva sui dischi ma chi partecipava attivamente allo spettacolo di intrattenimento. Di questo parla anche il celebre DJ Daniele Baldelli, che in realtà all’epoca non aveva un’opinione positiva dell’Italo Disco, opinione che poi ha riveduto nel corso degli anni.

Esistono nel mondo altri fenomeni paragonabili alla Italo Disco, nati dal basso per poi diffondersi a livello mondiale?

È risaputo che in Italia si faccia fatica a valorizzare ciò che produciamo e anzi siamo pronti a criticarlo se ha successo all’estero. Detto questo, il meccanismo che ha portato alla nascita della Italo Disco, prodotta inizialmente nelle cantine, l’ho riscontrato in altri generi che apprezzo particolarmente. Come lo Ska e il Rocksteady, generi ai quali dedicai nel 1999 il primo sito internet italiano sul tema, skabadip.com. Nella Giamaica dei primi anni Sessanta alcuni imprenditori cominciarono a usare camion come discoteche ambulanti, forniti di grandi casse che trasmettevano musica. Queste discoteche improvvisate ebbero tale successo che spinsero i musicisti locali ad ampliare l’offerta, fino ad allora confinata nei successi importati dagli Stati Uniti, con sonorità nuove e locali, portando alla nascita dello Ska. Allo stesso modo in Italia alla necessità commerciale si combinò la creatività favorita dai sintetizzatori e dalla possibilità di sperimentare suoni nuovi. A questo si aggiunse il turismo proveniente dagli altri Paesi europei che portò a un mix di culture e persone e la risposta alla richiesta di un’unione di più mondi.

Chi era Severo Lombardoni, fondatore della Discomagic Records, e perché è un personaggio così centrale per questo percorso?

Non il primo produttore a dedicarsi alla Italo Disco, ma un imprenditore decisivo per diverse ragioni. La sua Discomagic era una delle etichette più grandi e di successo del settore, per cui era in grado di attrarre più compositori e produttori. È stato ad esempio il caso di Pierluigi Giambini che spiega come si rivolse a lui portando proprio Dolce Vita, e ottenendo una reazione non molto entusiasta da Lombardoni, che tuttavia venne convinto grazie al commento di una sua assistente che pare avesse sentito per caso il brano. Tra l’altro quando Savage ha visto il documentario mi ha detto che la stessa cosa era accaduta a lui. Probabilmente era una strategia commerciale di Lombardoni, quella di sminuire il valore di una canzone che aveva capito avere i numeri per essere un successo mondiale, al fine di abbassare il prezzo d’acquisto. Appunto, ci sapeva fare, prova ne è che all’estero la sua Discomagic era un nome conosciuto.

E in effetti dal documentario emerge anche il ruolo della discografia tedesca sul successo della Italo Disco nel mondo proprio grazie al contatto con lo stesso Lombardoni…

Lombardoni frequentava le fiere internazionali del settore ed è lì che il discografico tedesco Bernhard Mikulski si accorse di un nuovo genere musicale che arrivava dall’Italia. Quindi decise di andare a Milano con la moglie, che ho intervistato, a cercare la Discomagic. Dopo un viaggio avventuroso (non c’erano i navigatori e la coppia non parlava una singola parola di italiano), riuscirono a prendere delle casse di dischi e se le portarono in Germania. Quella era un’epoca in cui la musica aveva ancora una concreta forma fisica per cui il sistema distributivo tedesco si dimostrò fondamentale per la diffusione di un genere che Mikulski decise, come racconta sua moglie, di chiamare Italo Disco. In sostanza capì che il trucco era di portare in Germania quella musica che i turisti avevano ascoltato in Italia e che ricordava loro il bel periodo delle vacanze. E quindi Italo Disco nelle discoteche italiane d’estate e Italo Disco nelle discoteche d’oltralpe d’inverno. Insomma, Italo Disco per tutte le stagioni. Mikulski alimentò un mercato internazionale e, con le sue copertine, alimentò anche un’estetica. Senza di lui, forse la Italo Disco non avrebbe avuto lo stesso impatto internazionale che invece ottenne. E, di sicuro, avrebbe avuto un altro nome.

A un certo punto viene spiegato che la Italo Disco è um misto tra tecnica e sonorità derivanti dall’elettronica e dai nuovi strumenti a disposizione e vena romantica della musica italiana. Da cui nasce il suo successo. Nel contempo Daniele Baldelli parla di vari sottogeneri da cui è composta la Italo Disco. Qual è in tal senso il migliore?

Certamente la Italo Disco aveva almeno due anime, ben rappresentate dalla scuola milanese (anima elettronica) e da quella romana (anima melodica). Inizialmente era stata la prima a emergere mentre è alla seconda che dobbiamo i brani più ‘romantici’, quelli di Gazebo per intenderci, con le musiche di Giombini. Io amo molti tipi di musica, dallo Ska, Rocksteady e Reggae al Dub, all’elettronica, ma mi sono avvicinato veramente alla Italo Disco solo lavorando a questo progetto. Amo pressoché tutte le canzoni che ho scelto per la colonna sonora: ho dovuto trattare a lungo per scovare e ottenere i diritti.

Righeira © La Bionda + Alpenway Media GmbH

Particolarmente importante emerge infine il ruolo di brani come Vamos a la playa e No tengo dinero dei Righeira. Con il video di quest’ultimo sottolineato come fondamentale nel suo messaggio futurista dal sociologo Ivo Stefano Germano. All’epoca l’impatto culturale di questi brani e della loro estetica in effetti non era stato preso in considerazione….

Mi pare che anche tu condivida l’opinione di molti: Ivo è il vero eroe del film! Uno studioso che va contro la tanta arroganza della cultura alta nei confronti della cultura pop. Sembra incredibile parlare oggi di futurismo rispetto ai Righeira, con Johnson Righeira che tra l’altro si dichiara lui stesso futurista, ma se appunto osserviamo con attenzione il video di No Tengo Dinero, peraltro prodotto dai La Bionda, scoviamo tutta una serie di simbologie sensazionali. Ecco, trovo molto interessante questa commistione postmoderna di cultura alta e cultura bassa, se vogliamo usare queste due categorie ben sapendo che Ivo giustamente ci bacchetterebbe sulle mani. Non ti nascondo il divertimento di essere riuscito a citare Herbert Von Karajan in un documentario sulla Italo Disco. Il perché? Lo lascio scoprire agli spettatori del film.

info@indiscreto.net

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