Italian connection

31 Maggio 2013 di Stefano Olivari

Ci domandiamo spesso perché in Italia si continui ad amare il calcio inglese, nonostante abbia perso  gran parte della sua identità. In realtà dovremmo porci domande più serie, ma così siamo e resteremo. La risposta è comunque semplice: lo amiamo perché per anni l’abbiamo intravisto, dalla tivù svizzera a quella di Capodistria, prima di poterlo vedere in un modo che è proibito anche agli inglesi stessi. Della nostra generazione, non proprio di fenomeni, fa parte la maggioranza dei partecipanti a un torneo di calcio a sette che segnaliamo per due motivi fondamentali: vi partecipa con giustificate ambizioni  di vittoria lo Stoke City, animato da nostri amici (fra questi il portiere Alessandro Polenghi), e il campo di gioco è quello della Masseroni Marchese (Masseroni il presidente dell’Inter prima di Moratti padre), in via Madruzzo (Milano, zona Fiera), squadra che abbiamo arbitrato per la Figc di Matarrese tantissime volte prima di scoprire che per vedere partite di calcio gratis la tessera meno rischiosa era quella di giornalista. 16 squadre che sabato 1 giugno si sfideranno all’alba al tramonto, in una competizione chiamata ‘Italian Connection’ organizzata da Irma D’Alessandro (proprio la giornalista Mediaset, animatrice del sito quellichelapremierleague.com) e che ha portato alla luce un mondo che nella nostra adolescenza era fatto solo di fanzine carbonare, scritte mediamente male e impaginate peggio. Perché quello che non abbiamo finora detto è che le squadre sono composte da iscritti ai club italiani di tifosi di squadre inglesi. Una realtà di circa diecimila persone, piena di passione ma anche di quelle logiche che portano a scissioni, cambi di nome e antipatie che si trascinano negli anni: gli unici club italiani che mancano sono quelli che fanno riferimento al Manchester United… Ma cosa volevamo dire? Una delle nostre solite cover, cioé che nella quasi totalità dei casi i club inglesi, intesi proprio come società, sono stati attentissimi nel mantenere i rapporti con i loro sostenitori fuori dall’Inghilterra. Quasi sempre risposte educate anche a sconosciuti (non è scontato, per chi è abituato all’Italia), invio di materiale senza bisogno di avere una improbabile ‘ufficialità’, orgoglio per avere simpatizzanti all’estero pur avendo poco pompaggio mediatico (vedere lo Stoke). Qualcuno lo chiama marketing, ma chi ha più di trenta anni può testimoniare che funzionava così anche in un’era pre-marketing in tutto quel mondo che semplificando chiamiamo anglosassone. La richiesta di una foto a una qualsiasi università americana viene accolta come se arrivasse da un premio Pulitzer (parliamo per esperienza personale, da North Carolina a Nebraska, non come premi Pulitzer ma come chieditori di foto) e anche nella globalizzata e omologata Premier League ogni persona viene fatta sentire non diciamo importante, ma almeno parte di qualcosa. Conclusione: la popolarità globale non si costruisce solo con i campioni, ma anche con l’atteggiamento. Oltre che con un passato coloniale leggermente più importante di quello italiano.

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