Investimento su Nibali

28 Maggio 2013 di Simone Basso

Le Tre Cime di Lavaredo, se le guardi dalla prospettiva giusta, paiono un monumento azteco, tre guglie minacciose che forano il cielo. Hanno un’aurea speciale quando ospitano il ciclismo: lassù, nel 1968, nacque il Merckxismo. Ventuno anni dopo, era il 1989, c’era – come sempre – un tempo da lupi e si impose uno dei Buendia, Lucho Herrera, davanti al grande Laurent Fignon. Sabadì scorso il cerchio si è finalmente chiuso.

La tribù dei colombiani, ritornati in auge, imperversava: prima qualche scatto di Werner Atapuma, il nome di Herzog, il cognome un urlo futurista, poi la danza di Uran, di Capitan Futuro Betancur e di Duarte. Ballavano attorno al nuovo totem dello sport italiano, Vincenzo Nibali, mentre nevicava come fossimo alla Vasaloppet o a un Natale dadaista alla fine di Maggio. Vincenzino da Torre Faro, nel messinese, terra bruciata dal sole e mare sorvegliato da Cariddi, è il primo siciliano della storia a vincere il Giro d’Italia: un trionfo meritato e pirandelliano, considerando che mai la corsa rosa si era disputata in condizioni climatiche così estreme.

Difatti il 2013, per inclemenza metereologica, supera il 1995: nove tappe tra pioggia e neve e una – per la terza volta dal 1909 – addirittura cancellata dal maltempo. Facile dunque capire perchè il freddo e l’acqua abbiano reso la gara un massacro. L’organismo dei corridori è stato messo a dura prova, le difese immunitarie abbassate, e la selezione è stata impietosa; come hanno dimostrato le débacle di Wiggins e Hesjedal.

Il Nibali, amarcord, lo seguiamo da più di dieci anni; da quando, juniores, a Zolder, prese il bronzo nella prova iridata a cronometro. E l’abbiamo subito considerato un patrimonio prezioso, un gioiello, del ciclismo tricolore. Perchè era davvero, potenzialmente, un investimento (sportivo e umano) sicuro. Lo Squalo dello Stretto, da bimbo, è stato messo in bicicletta da papà Salvatore, un appassionato delle due ruote un po’ preveggente: il mezzo ideale anche per stancare quel terremoto di figlio. Cominciò a pedalare facendo lo scavezzacollo, cadeva e si rialzava. Magari col ginocchio sbucciato e un po’ di sangue: il rito di iniziazione che sostituisce, per i maschi più svegli, la comparsa del mestruo nelle ragazze. Senza volerlo stava imparando i ferri del mestiere, lui oggi così bravo nella guida tecnica.

A sedici anni, una storia siciliana come tante, era oramai andato via da casa. Prima pendolare, poi emigrato, per rincorrere il suo sogno in Toscana. Alla Mastromarco di Perugi e Franceschi, qualche anno dopo, era già per i suiveur il Nibali, saggio nello scegliere una piccola squadra under 23, non le corazzate che scimmiottavano i professionisti. Ed è diventato, nello stile aggressivo e generoso, nelle doti discesistiche, “toscano”: studiando da campione, formichina bradicardica, senza bruciare le tappe. Il risultato, a ventotto anni, è adesso sotto gli occhi di tutti. Uno che sta riportando entusiasmo e interesse (la folla sulle strade, le scritte sull’asfalto, le pagine dei giornali) verso un movimento in una transizione – delicata – tra una generazione imbarazzante e la nuova onda (Moser, Aru, Ulissi, Rosa, Battaglin, Modolo, Viviani, etc.).

Culturalmente, per uno sport italiano caratterizzato da personaggi come Balotelli e la Pellegrini, ha un approccio quasi rivoluzionario. Ha fatto della sua passione un lavoro, remunerato dai petrorubli kazaki, e non lo sentirete mai lamentarsi della professione. Equilibrato, educato, gentile. Niente capelli con la cresta, nessuna dichiarazione roboante, felice di essere un antipersonaggio. Dietro la maschera però c’è ancora la determinazione, la ferocia zen (sic), di quel ragazzino sedicenne con la valigia. Che vive a Lugano con la moglie Rachele e che le fu presentata dall’amico e compagno di squadra Valerio Agnoli: la futura signora di don Vincenzo, ai primi appuntamenti, non capiva perchè il nuovo fidanzato si accompagnasse sempre con la bici, magari nel bagagliaio di un’auto di seconda mano… Nibali per mesi e mesi è in giro per il mondo ma i legami con mamma Giovanna, la famiglia, i Marchetta che per primi lo accudirono, la Sicilia bedda e Lamporecchio, sono imprescindibili.

La sua è una piccola lezione, l’ennesima, di un meridionale; di un giovane nato in una parte di Italia senza opportunità e infrastrutture. Nell’anno che ci ha lasciati Pietro Mennea è una simbologia fortissima che non possiamo non far notare. I ciclisti siciliani, una volta la primula rossa era Giovannino Corrieri, il gregario più fedele di Bartali, sono pochi ma tosti. Pensiamo al Visconti, rinato sul Galibier, o alla scorza da vecchio marinaio di Tiralongo che, per aiutare la maglia rosa, ha sopportato la febbre a trentanove e la bronchite. Fame atavica, tutto qui.

Il Vincenzo Nibali del Giro 2013 è l’epitome del passista-scalatore da tre settimane, in un ciclismo dai wattaggi umanissimi. Un Gimondi moderno ma con la postura in sella, elegante, raccolta, del Motta che fu rivale proprio del bergamasco. Negli anni, e il merito è soprattutto di Paolo Slongo quando era alla Liquigas, ha sviluppato la forza, la tonicità muscolare, delle gambe. Altrimenti, ai tempi della Fassa Bortolo, troppo esili. Una delle differenze con lo Squalo prima maniera è che non si intestardisce più con i lunghi rapporti. Salendo verso Polsa, in una cronoscalata veloce, in alcuni tratti sviluppava quasi cento pedalate al minuto. Rimane un istintivo, uno che la tattica, per fortuna, se la fa suggerire dalla strada, non dall’Srm… Nell’oroscopo ha il Tour de France, un’impresa possibile che lo porrebbe statisticamente al livello di pochi fuoriclasse (Anquetil, Gimondi, Merckx, Hinault, Contador) che si sono imposti in tutti e tre i Grandi Giri.

Per dare un senso al resto della stagione c’è l’appuntamento mondiale nella terra che lo adottò. A Firenze, opposto a una concorrenza da far tremare i polsi, Cancellara, Sagan, Gilbert, ma con la certezza che, quel pomeriggio, come sempre, sarà là davanti a giocarsela.

(per gentile concessione dell’autore, fonte: Il Giornale del Popolo del 28 Maggio 2013)

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